Settimana Santa e Real Maestranza

La Settimana Santa e la Real Maestranza (di Evelin Milazzo)

“[…] una cosa è osservare la gente mentre esegue i gesti stilizzati e i canti misteriosi delle celebrazioni rituali e una cosa ben diversa è raggiungere una comprensione adeguata di quello che i movimenti e le parole significano per loro”
(Victor Turner)

Questo studio sui riti della Settimana Santa nissena va oltre lo sguardo storico già presente in numerosi testi sull’argomento. Mancava, a mio avviso, un’analisi che non seguisse strettamente la sequenza cronologica dei fatti ma che da essi riuscisse a trarre degli schemi più ampi e ricorrenti. Pur prendendo le mosse da un imprescindibile approccio storico, la chiave di lettura più adeguata a questo nuovo sguardo è data dagli studi di antropologia attraverso i quali è possibile analizzare nello specifico l’aspetto rituale.

Ci si può poi porre in molteplici modi rispetto all’oggetto d’interesse: un antropologo che si reca a studiare una civiltà diversa dalla propria potrebbe travestirsi da indigeno o, in un atteggiamento di distaccata superiorità, sentirsi “altro” dalla civiltà che lo circonda. Un terzo e più corretto approccio è quello dell’osservazione partecipante: termini usati insieme non come complementari, bensì come opposti per sperimentare entrambi i campi: la distanza dell’osservatore, la vicinanza del partecipante. Unificate in un solo ruolo e tenute vive in esso da una continua tensione fra loro.

Guide di questo percorso sono stati gli studi di Victor Turner e di Arnold Van Gennep, il quale ha per primo individuato tre momenti in cui si suddividono i riti di passaggio. Questi ultimi sono quelli che permettono ad un soggetto di passare da uno status sociale ad un altro. I momenti rilevati sono: una prima fase di separazione (in cui i ritualisti si separano dalla loro quotidianità), una fase centrale di liminalità (dal latino “limen”, soglia, indica il periodo di sospensione limbica in cui non si è più ciò che si era e non si è ancora ciò che si diventerà), una terza fase di reintegrazione (il rito è stato compiuto e tutto torna alla normalità).

La parola Pasqua significa “passaggio” e i riti ad essa afferenti rientrano perfettamente in questo metodo di studio proposto da Van Gennep.

Particolare attenzione sarà rivolta alla Real Maestranza in quanto il Capitano è l’unico soggetto rituale che compie un passaggio di status vero e proprio.

Brevi percorsi storici

Dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua

“Se ci guardiamo intorno nelle stanze in cui viviamo […] possiamo constatare qui quanto poco chi conosca solo il suo tempo sia in grado di comprendere correttamente anche quello soltanto”
(E. B. Tylor)

Prima di addentrarsi in qualsiasi approfondimento reputo necessaria, una breve introduzione su quelli che sono gli “appuntamenti” della Settimana Santa nissena.

La Settimana Santa liturgicamente inizia con la Domenica delle Palme che ricorda l’ingresso di Gesù in Gerusalemme; in questo giorno si svolge la processione di Gesù Nazareno la cui statua viene posta sopra una struttura che ha forma di barca ed è tutta adornata con fiori.

La sera della Domenica delle Palme iniziano le Quarantore di adorazione eucaristica: tanto il tempo che si riteneva Cristo fosse rimasto nel sepolcro. Il Lunedì e Martedì Santo, ma i giorni possono variare, si svolgono la prima parte (l’ultima cena) e la seconda parte (il processo e la crocifissione e morte di Cristo) della rappresentazione della “Scinnenza” (dal dialetto siciliano “scinniri”, ovvero “scendere”, indica la deposizione del corpo di Gesù dalla Croce) organizzata dalla Pro Loco di Caltanissetta. Inizialmente la rappresentazione si faceva il Sabato Santo ma per decisione episcopale questo è cambiato per rispettare il silenzio e il lutto dal Venerdì alla Domenica di Resurrezione, pur andando incontro a un’incrongruenza temporale con la rappresentazione anticipata della morte di Cristo. Il Mercoledì Santo si svolgono due processioni: quella della Real Maestranza al mattino e quella delle “Varicedde” dalle 21.00 di sera alle 3.00 del mattino seguente. Le Varicedde sono diciannove e rappresentano in piccolo le stazioni della Via Crucis e altri momenti del Calvario di Cristo. Sono riproduzioni più piccole delle Vare del Giovedì.

Il Giovedì Santo vede liturgicamente la Santa Messa del Crisma al mattino e la lavanda dei piedi durante la messa vespertina. Dalle 21.00 alle 4.00 del mattino si svolge a Caltanissetta la processione delle Vare: sedici gruppi sacri a grandezza naturale.

Il Venerdì Santo non ci sono messe; è il giorno del lutto e dell’adorazione dell’altare spoglio e del Cristo morto. È il giorno della processione più toccante e sentita nel nisseno: il Cristo Nero.

La Domenica di Pasqua si conclude con la terza parte della rappresentazione della Scinnenza (la resurrezione di Cristo). Viene celebrata la Santa Messa di Resurrezione e si concludono ufficialmente i riti legati alla Real Maestranza.

Gesù Nazareno

“Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui […]”
(Giovanni 12,12-13)

Liturgicamente la Domenica delle Palme celebra l’ingresso di Gesù in Gerusalemme e la S. Messa celebrata al mattino, in cui viene letta dal Vangelo la passione di Cristo, apre la Settimana Santa.

La ritualità non liturgica, la Settimana Santa di Caltanissetta, inizia invece al pomeriggio di questo stesso giorno con la processione devozionale di Gesù Nazareno. Processione che parte dalla Chiesa di Sant’Agata al Collegio, ex Collegio dei Padri Gesuiti. Ed è proprio qui che dobbiamo andare a ricercarne le origini storiche.

Presso questo Collegio furono fondate quattro Congregazioni[1]: quella di Sant’Ignazio, della Purificazione di Maria Santissima (o della Candelora), di San Luigi e quella della Vergine Bambina. Sarà da quest’ultima che si originerà l’attuale processione del Nazareno. Gli scopi per cui nascevano le Congregazioni, come lo storico nisseno B. Punturo ci ricorda anche per le Corporazioni d’arte, erano di carattere didattico-religioso e umanitario. Si occupavano di mantenere vivo il culto del proprio Santo Patrono che, per la Congregazione della Vergine Bambina, era festeggiato l’8 Settembre, giorno in cui la Chiesa ricorda la natività di Maria. In questo giorno i confratelli indossavano un tradizionale “abitino” di colore celeste con l’immagine di Maria Bambina al centro e con le loro insegne. Queste insegne, in numero di sette, sono tutt’oggi portate in processione dall’Associazione Gesù Nazareno.

Dopo la celebrazione eucaristica, la Congregazione portava in processione dentro Sant’Agata una statua raffigurante la Vergine Bambina con una corona d’argento in testa: il tutto era preceduto dalla Bandiera della Congregazione. I confratelli partecipavano anche al Giovedì Santo, accompagnando la vara della Seconda Caduta, chiamata dai nisseni “a vara di li Congreganti di lu Collegiu”.

Le Congregazioni erano solite inoltre partecipare alle quaranta ore di adorazione eucaristica, occasione in cui la Congregazione della Vergine Bambina giungeva presso la Cattedrale portando a spalla dal Collegio Gesuitico una vara recante l’urna con Cristo morto adornata di fiori (popolarmente chiamata “sepurcru di sciuri”). Quest’uso cessò nel 1866, con la soppressione degli ordini religiosi, ma rimase in vita in forma diversa: si portava in processione per le vie della città il giorno della Domenica delle Palme. A questo punto era cambiato il significato del corteo e l’immagine del Cristo morto, non essendo più connesso con l’adorazione delle Quarantore, era fuori contesto: non si poteva portare in processione il corpo di Cristo morto nel giorno che liturgicamente ne ricordava il trionfale ingresso a Gerusalemme.

Dal 1870 la processione portò così, su un monte di fiori, una statua di Gesù in atto di benedizione. Nei primi anni del XX secolo, l’organizzazione di questa processione venne presa in carico da un comitato formato da sei famiglie nissene che probabilmente facevano già parte della vecchia Congregazione della Vergine Bambina: Antinoro, Cortese, Costa, Falduzza, Giammusso, Giordano e Miraglia.

Origini ed evoluzione storica: dalla Milizia alla Maestranza alla Real Maestranza

“È tutto un periodo storico, che si concreta nella parola Maestranza”
(Biagio Punturo)

Origini

Esistono diverse ipotesi riguardo le origini delle Maestranze. Le più ardite vogliono riportarle addirittura alle caste indiane o ai “Collegia” romani. Ma, le prime effettuavano una divisione basata sulle origini e sul ceto; i secondi erano di carattere prettamente politico. Caratteristica intima delle Maestranze è invece la divisione per categoria di lavoro finalizzata, anche, a promuovere e mantenere la tradizione della tecnica.

È nel Medioevo che dobbiamo andare a ricercare tali origini.

Presso i romani, inoltre, il lavoro era considerato addirittura disdicevole e consono solo alla classe servile. Appare chiaro come questo sia in netta opposizione con ciò che le Maestranze hanno rappresentato nei secoli. L’avvento del Cristianesimo portò a cambiare questa concezione del lavoro che anzi migliorava la condizione dell’uomo. Contro l’Impero Romano si scagliarono: spiritualmente, il Cristianesimo; materialmente, le ondate barbariche con le loro armi.

A porre fine ai soprusi barbarici intervenne una nuova organizzazione sociale: quella gerarchica del Feudalesimo introdotta in Sicilia dai Normanni. A capo di tutto era il sovrano; verso di lui avevano obblighi di obbedienza i suoi vassalli: baroni proprietari ciascuno di una propria terra i cui abitanti solo a loro erano soggetti. Tutto, quindi anche le arti, era governato, approvato e regolato dalla volontà baronale. L’organizzazione di tipo gerarchico interna alla Maestranza rispecchia questo periodo storico, con un Capitano, uno statuto, con regole da rispettare e prove da superare: “nella rocca come nella officina; nel comune come nel castello”[2].

Nel 1337 il governo del Regno di Sicilia fu assunto da quattro Vicari: Peralta, Chiaramonte, Ventimiglia e Alagona. Da questa divisione fu escluso il Moncada che per questo motivo rapì la regina Maria facendola sposare con Martino di Spagna. Contro quest’ultimo i Vicari lottarono invano e alla fine dovettero cedere.

Il 25 Giugno 1407 Matteo Moncada dona all’ormai Re Martino il castello e la città d’Agosta ricevendone in cambio, e in segno di riconoscenza, Caltanissetta. I Moncada furono signori di Caltanissetta fino al 1812 (anno in cui ebbe termine il potere feudale).

Il XVI secolo fu caratterizzato per il Regno Spagnolo, e dunque anche per la Sicilia, dalla paura dell’invasione turca e di conseguenza da una situazione di continua allerta. Ogni anno l’isola si preparava con massima attenzione a questa evenienza e inizialmente la difesa era affidata all’esercito spagnolo. Data la posizione centrale della città di Caltanissetta, l’invasione si fece attendere praticamente per sempre; le zone più a rischio erano le coste nord-orientali dell’isola. Difatti la strategia difensiva prevedeva la fortificazione delle città di Catania, Messina, Palermo e Augusta. Le spese per l’organizzazione e il sostentamento dell’esercito spagnolo erano a carico della Sicilia. Esercito che, col tempo, divenne soltanto un altro pericolo da cui guardarsi a causa dell’ozio cui esso era costretto in attesa dell’attacco turco. Difatti nel 1539 l’esercito spagnolo ammutinò iniziando a segnare la città con stupri e atti di violenza.

Nel 1551, per far fronte alle spese, si organizzò un esercito sempre sotto il comando spagnolo ma formato da uomini siciliani che continuavano a risiedere nella propria provincia e che provvedevano da sé alla propria armatura a seconda del censo e delle possibilità economiche.

Il capitano d’armi a comando di queste truppe era scelto direttamente dal viceré e aveva l’obbligo di fare la mustra[3] periodicamente, cioè di passare in rassegna la milizia urbana e valutarne la preparazione. Questo tipo di organizzazione coinvolgeva anche le città dell’entroterra nonostante la minaccia offensiva qui fosse più blanda. I primi documenti nisseni sulla milizia urbana sono del 1554.

L’armatura dei soldati di pedi doveva essere la seguente: zigagli (lance lunghe) ornati di banderuole, archibugi con quaranta palle, polvere da sparo e miccia. I cavalieri dovevano avere: corazzino, maniche e guanti di maglia di ferro, elmo[4].

La minaccia turca continuò ad essere sentita anche dopo il 7 Ottobre 1571, anno della loro sconfitta nella battaglia di Lepanto per opera della Lega Santa (Repubblica di Venezia, Regno di Spagna, Stato Pontificio sotto Papa Pio V, Cavalieri di Malta e Ducato di Savoia).

Il 1625 vede Caltanissetta salvarsi dalla peste grazie all’apparizione di San Michele che diventa così il nuovo patrono della città[5]. Ma, da questa data in poi, i Moncada non tornano più a vivere nella città perdendo gradualmente il loro potere a favore dei “Gentiluomini” che nella prima metà del Settecento lottarono per la successione al potere.

Nel 1634 il viceré emanò un bando secondo il quale la milizia poteva continuare a portare le armi e le maniche di maglia di ferro, ma solo nel luogo di residenza dei soldati. L’autorizzazione ad uscire armati c’era solo se schierati “sotto la bandiera”. Fu così che, gradualmente, la milizia urbana cominciò ad assumere i compiti di un picchetto d’onore più che di una forza armata a difesa della città. Col ruolo invece di rappresentare il popolo, veniva convocata durante le processioni, specie quella del patrono della città. Un bando organizzativo di questa processione del 1643 ordinava a tutta la Maestranza di presenziare con i loro archibugi e scopette, pena una multa da pagare all’erario fiscale per chi non si fosse presentato. Il nome di Maestranza venne attribuito in questi anni e viene dalla formazione della milizia composta dai “mastri”, cioè dai “maestri artigiani”.

Nel 1643 la Maestranza venne convocata anche per accogliere il viceré in visita alla città di Caltanissetta, unendosi al corteo vicereale.

Combattimento

Nel 1713, con la sottoscrizione del Trattato di Utrecth con cui si pone fine alla guerra di successione spagnola, la Sicilia viene ceduta da Filippo V a Vittorio Amedeo di Savoia. Gli Spagnoli tenteranno nel 1718 di riconquistarla. È proprio questo l’anno in cui la milizia urbana compie il suo primo (forse unico) combattimento: Caltanissetta, ancora fedele al Re di Spagna, si oppone con tutte le sue forze al passaggio dell’esercito savoiardo in marcia contro il nuovo attacco spagnolo. La lotta fu cruenta e si combatté proprio nelle vie della città. A riguardo, Camillo Genovese, in una lettera scritta per conto dello zio Vincenzo Ruggiero descrive le vicende intercorse tra i nisseni e il Conte Maffei (l’allora viceré che da Palermo si era mosso verso Siracusa per fortificare l’isola).

Il 4 Luglio il Conte Maffei fa pervenire una lettera in cui ordina l’approvvigionamento presso Vallelunga e Caltanissetta di viveri per l’imminente passaggio da quelle città di 5.000 Savojardi. La notte dopo il 7 Luglio un’altra lettera modifica questi piani. Stavolta il mittente è il duca don Giovanni Gravina, capitano di fanteria delle truppe spagnole, il quale ordina per conto del nuovo re di negare ai Savoiardi i viveri e di opporsi al loro passaggio. La mattina dell’8 Luglio la notizia si è diffusa in Caltanissetta, città che, mal sopportando il governo Savoiardo (che aveva aumentato i dazi) chiede al Magistrato le armi necessarie ad obbedire al Re di Spagna, a cui sempre Caltanissetta in particolare e la Sicilia tutta erano fedeli.[6]

Il Consiglio dei nobili insieme con il magistrato tentarono invano di negare tale permesso non ritenendo i nisseni pronti a una tale difesa, ma il popolo con tumulti e minacce riuscì a forzare il magistrato affinché egli ordinasse di aprire l’armeria pubblica per distribuire armi e munizioni alla milizia urbana. Ottenute le armi la milizia si appostò in due differenti punti strategici per difendere la città. Arrivò l’avanguardia savoiarda che, non comprendendo cosa fosse quello schieramento di forze, tornò indietro a riferire al Conte Maffei. Stupito di ciò, questi, tramite ambasciatore, chiese spiegazioni che gli furono date.

Pur di non attaccare, il Conte fece diversi tentativi di patteggiamento chiedendo prima l’ingresso delle truppe senza armi, solo per acquistare i viveri; poi rifiutò l’aiuto di cittadini nisseni corrotti che l’avrebbero condotto all’interno della città; infine chiese di entrare solo lui e la sua famiglia offrendosi quasi d’ostaggio pur di acquistare le provvigioni necessarie. All’ennesimo rifiuto dei cittadini nisseni decise di entrare con la forza accettando stavolta l’aiuto precedentemente offertogli da alcuni uomini di Caltanissetta in cambio di denaro. Il comando dato alla truppa savoiarda era di attaccare solo per difendersi.

I Savoiardi riuscirono a entrare in città e ci furono degli scontri mortali. Arrivarono fino alla Piazza principale compiendo atti di saccheggio e violenze nei quartieri Provvidenza e Zingari. Il Capitano della milizia aveva chiesto aiuto alle città vicine le quali però, giunte alle soglie della città e vedendola in mano ai Savoiardi, si ritirarono tutte; alcune, alla sola notizia di ciò non partirono neanche alla volta di Caltanissetta. Intanto il Conte Maffei temeva l’arrivo degli Spagnoli, per cui fece un altro tentativo di pacificazione. Stavolta andò a buon fine poiché riuscì a trattare serenamente con il capitano e il giurato della città essendosi i nisseni ritirati nelle loro case per difendere i propri beni e le proprie donne. A colloquio con costoro, come riporta Camillo Genovese, “Come dunque trattato mi avete da nemico con le armi alla mano?” chiese il Conte. E gli fu mostrata la lettera del duca di San Michele dicendo che il popolo “incapace di ragione, quasi forzato avea il magistrato ad intraprendere tale risoluzione”. Così si fece noto ai cittadini dell’avvenuta pace con i Savoiardi. La perdita per Caltanissetta, tra i viveri necessari a costoro e i saccheggi subiti, fu di 50000 scudi.[7]

I Gentiluomini continuavano ad aumentare il loro potere, politico ed economico, favoriti anche dallo sviluppo, dalla seconda metà del Settecento alla prima metà del secolo successivo, delle zolfare. Il dominio feudale dei Moncada era sempre più anacronistico e nel 1812 decadde definitivamente per opera del governo Borbonico.

Fine delle Corporazioni

Venute a mancare le caratteristiche di istituzione politico-sociale a tutela del lavoro e del lavoratore, regolamentatrice per un commercio onesto ed egualitario, le Corporazioni sopravvissero dunque come Congregazioni di Maestri militarmente organizzate, ciascuna rappresentata da un proprio magistrato autonomo in campo giurisdizionale. In questo ambito rientra il potere dato al Capitano in carica di liberare, il Mercoledì Santo, un detenuto, la cui pena fosse inferiore a un anno[8]. Questo potere, però, mal si amalgamava con le classi politiche dirigenti e nel 1872 si decise per la loro soppressione. Resisteva soltanto la loro integrazione nella sfera religiosa. Già dal 1820, la sostituzione dei fucili con i ceri era segno evidente della trasformazione in congregazione religiosa e dell’abbandono delle caratteristiche prettamente politiche e militari.

Nel 1806 da Re Ferdinando IV di Borbone, durante una sua visita, fu accolto dal “picchetto d’onore” formato da ben 400 uomini della Maestranza e, colpito dalla magnificenza e dalla bellezza di questo schieramento processionale, gli attribuì il titolo di “Reale” di cui tuttora essa si fregia.

Nel 1849 le corporazioni dovettero sottostare ad un ulteriore depauperamento del loro status in quanto i loro antichi vessilli vennero requisiti e sostituiti dal 1860 dai nuovi.

Nata dunque come milizia difensiva di Caltanissetta, perse man mano le caratteristiche militari, soprattutto per la posizione interna della città che per questo motivo non necessitava di difesa armata, e si trasformò in picchetto d’onore per le visite di personaggi illustri e per le processioni religiose. Da struttura politica e sociale si “snatura” in organizzazione di tipo religioso volta alla devozione del Santissimo.

Vare e Varicedde: storia dei gruppi sacri

“Non mancherà, ne son sicuro, chi obietterà che non valeva la pena d’affaticarsi tanto nello scrivere la storia di una processione; ma mi si permetterà di far osservare che tutto è necessario alla formazione della storia di un paese.”
(Michele Alesso)

Vare

Non è semplice guardare con occhi nuovi ciò su cui gli occhi sono abituati a posarsi. Non così per l’Alesso quando descrive il Duomo di Caltanissetta esaltandone i preziosi interni barocchi e gli affreschi in contrasto con la semplicità della facciata esterna. Proprio qui dobbiamo rivolgere lo sguardo per scorgere le origini dell’attuale processione nissena del Giovedì Santo.

Diverse fonti danno notizia della presenza in questa Chiesa di quattro Confraternite e una Congregazione, quella di S. Filippo Neri, fondata nel 1690 con un decreto episcopale a cui erano ammessi soltanto sacerdoti. Presso la Chiesa di Sant’Agata, sede del Collegio dei Padri, era la Congregazione “dei civili” o “di li galantuomini”.

Nel 1767, per bolla Papale di Clemente XIV, l’ordine dei Gesuiti viene abolito e i Padri vengono cacciati dal Regno[9]. Perdendo la propria sede, la Congregazione dei civili, costretta a sciogliersi, fu assorbita dalla Congregazione di San Filippo Neri (detta anche “di li parrini”) che da questo momento sarà chiamata “la congregazione dei preti e dei civili”. Questa usava, dopo la predica della messa vespertina del Giovedì Santo, portare in processione cinque barette con sopra delle statuette di carta di circa 50 cm di altezza e con esse fare la tradizionale visita ai sepolcri[10] presso cinque[11] Chiese. Era, come racconta M. Alesso, una processione che “senza alcuno sfoggio di luminarie e senz’altra pompa esteriore […] con vera devozione faceva il suo giro”[12]. Alla fine della processione tornavano nella Piazza principale (ex Piazza Ferdinandea) dove il sacerdote quaresimalista faceva quella che veniva chiamata la “predica dei misteri”[13] nella quale spiegava il significato delle cinque barette. Dopodiché esse rientravano nella Chiesa Madre, concludendo la processione.

Tale processione subì un graduale declino a partire dal 1790 fino a giungere alla sua soppressione nel 1801. Venne quindi ripresa nel 1840, con l’uscita di sette vare, grazie all’interesse del farmacista Giuseppe Alesso della Congregazione di San Filippo Neri, della quale conosceva dunque l’antico uso. Durante la processione la milizia urbana aveva il compito di mantenere l’ordine pubblico. Dato il “successo” di questa prima ripresa, Giuseppe e Michele Alesso vollero darle ancora più splendore e importanza e lo fecero, tra il 1840 e il 1846, con la costruzione di nuovi gruppi e il rifacimento di quei sette che erano stati improvvisati volendo arrivare al numero di quattordici gruppi sacri, quante erano le stazioni della via crucis.

Le spese della processione si fecero notevolmente più sostenute e per questo si decise di cedere i singoli gruppi ai diversi ceti della città i quali, anche in caso di ristrettezze economiche, erano costretti dalle autorità a fare uscire il proprio gruppo e la folla era tanta, dice l’Alesso, che “uno spillo, lanciato per aria, per ricadere, non avrebbe trovato posto”[14]. Ciò nonostante sono stati però registrati alcuni anni di decadenza della festa.

Una data fondamentale nella storia dei gruppi sacri nisseni è il 12 Novembre 1881, giorno in cui, per una fuga di gas grisou, ci fu un devastante incendio all’interno della miniera di Gessolungo, nel quale persero la vita sessantacinque minatori[15]: tra essi nove carusi[16] rimasti senza nome. In seguito a questa strage, i minatori superstiti decisero di partecipare alla processione del Giovedì Santo: volevano restaurare il vecchio gruppo della “Veronica” ma non fu possibile perché la vara era troppo pesante, per cui ne commissionarono una nuova, tutta a loro spese, a due artisti, padre e figlio, di origine napoletana, trasferiti nella provincia di Caltanissetta: Francesco e Vincenzo Biangardi che si erano distinti per abilità nella costruzione di diverse statue sacre. Il risultato fu tale da spingere uno per volta tutti gli altri ceti a fare lo stesso[17]: i Biangardi costruirono quindici delle sedici vare che ancora oggi escono in processione. Di seguito i nuovi gruppi, artisti, costo e data di costruzione (ove conosciuti) e i rispettivi ceti di appartenenza:

1. Cena – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1885 – £ 2.800 – panettieri e fornai – Essa è la riproduzione del dipinto di Leonardo.

2. Orazione nell’orto – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1884 – £ 800 – (“Lu Signuri all’ortu” o ”La vara di li pastara”) – pastai

3. Cattura – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1884 – £ 1.100 – (“La vara di Giuda” o “La vara di l’urtulana”) – ortolani e verdurai

4. La flagellazione – Francesco e Vincenzo Biangardi completato da altri artisti ignoti, 1888-1909

5. Sinedrio – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1886 – £ 6.000 – (“Lu cunsigghiu di Caifassu” o “La cunnanna” o “La vara di li surfatara di Testasicca”) – zolfai amministrazione Conte Testasecca

6. Ecce Homo – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1892 – £ 1.400 – (“Lu Ceomu” o “Pilatu affacciatu a lu barconi” o “La vara di li putiara”) – pizzicagnoli e fruttivendoli

7. Condanna di Gesù – Francesco Biangardi, 1902 – £ 4.300 – (“La cunnanna di lu Signuri” o “La vara di li surfatara di Trabunedda”) – zolfai miniera di Trabonella

8. Prima caduta – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1886 – £ 700 -(“La vara di li viddani” o “La vara di li jurnatara”)

9. Cireneo – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1886 – £ 800 – (“Lu Cinreneu” o “La vara di li jissara”) – gessai

10. Veronica – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1883 – £ 900 – (“La vara di li surfatara di Jissulongu) – zolfai miniera di Gessolungo

11. Calvario – Francesco Biangardi, 1891 – £ 1300 – (“La vara di li vuccera”) – macellai

12. Vincenzo Biangardi, 1885 – £ 2.200 – (“La scinnenza” o “La vara di li surfatara di Tumminelli”) – zolfai amministrazione Tumminelli – Riproduce il dipinto di Rubens

13. Pietà – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1882 – £ 1.200 – (“La vara di li burgisi”) – borghesi

14. Condotta al sepolcro – artisti napoletani – (“La vara di Giuseppi e Nicodemu”) – Real Maestranza

15. SS: Urna – 1892 – £ 4.000 – (“Lu sepurcru”) – preti e civili

16. Desolata – Francesco e Vincenzo Biangardi, 1896 – £ 1.200 – (“La Ddulurata” o “La Solitudini”) – mugnai, sensali, vetturai e venditori di vino[18]

Varicedde

La processione delle “Varicedde” nacque per opera dei garzoni di bottega i quali, esclusi dalla processione del Giovedì Santo, volevano in qualche modo partecipare ai riti della Settimana Santa. Si occuparono così di costruire dei piccoli simulacri in terracotta che imitavano le stesse stazioni delle Vare e le portavano “a palma di mano” su delle “guantiere”[19] per la città seguendo lo stesso percorso. Questo avveniva nei primi anni del 1900. Ne abbiamo testimonianza da M. Alesso che nella sua opera Il Giovedì Santo in Caltanissetta ha riportato anche i Programmi della processione che venivano affissi nella città. E tra questi è presente anche quello della processione del Mercoledì Santo, delle Varicedde appunto.

Leggiamo che “nel 1901 si vide affisso ai muri il primo piccolo programma, in proporzioni adeguate all’importanza della processione, stampato a cura di un piccolo comitato […]

I primi tre gruppi costruiti furono: la pietà, il cireneo e la crocifissione su commissione allo scultore Giuseppe Emma di San Cataldo, discepolo del Biangardi, chiamato “u zannu”, cioè “lo zingaro”, perché andava nelle varie province portando le opere da lui costruite. Le migliorie ai gruppi continuarono fino al 1995. Oggi i gruppi sono 19 e sono i seguenti[20]:

1. La cena – Salvatore Capizzi, 1958 – appartiene alla fam. Bella

2. L’orazione nell’orto – Salvatore Capizzi, 1952 –fam. Riggi e 1957, fam. Bruno Francesco

3. La cattura – Giuseppe Emma, 1939 – appartiene alla fam. Archetti-Miraglia

4. Il Sinedrio – Salvatore Capizzi, 1947 – appartiene alla fam. Riggio

5. La flagellazione – Giuseppe Emma, probabilmente nel 1947 – appartiene alla fam. Cagarella Salvatrice

6. L’Hecce Homo – Salvatore Capizzi, 1933 – appartiene alla fam. Riggi

7. La condanna – Giuseppe Emma figlio, 1950 – appartiene alla fam. Russo

8. La prima caduta – Giuseppe Emma, 1933 – appartiene alla fam. Riggi Vincenzo

9. Gesù incontra la sua Santissima Madre – Giuseppe Emma figlio, 1987 – appartiene alle fam. Spena e Grimaldi – Riproduce un dipinto di Raffaello.

10. Il cireneo – Giuseppe Emma, 1924 – appartiene alla fam. Di Giovanni

11. La Veronica – Giuseppe Emma, prima metà degli anni Venti, rifatta ex-novo da Salvatore Capizzi, 1949 – appartiene alla fam. Paolillo

12. Gesù spogliato delle sue vesti – Salvatore Capizzi, 1955 – appartiene alla fam. D’Oca-Gioè

13. Gesù inchiodato alla croce – F.lli Giuseppe e Salvatore Emma, 1995 – appartiene alla fam. Cimino Calogero

14. Il Calvario – Giuseppe Emma, 1924 – appartiene alla fam. Gervasi

15. La deposizione – Salvatore Capizzi, 1965 – appartiene alla fam. Nicola e Michele Spena

16. La pietà – Giuseppe Emma, 1924 – appartiene alla fam.. Lodico

17. La traslazione – Salvatore Capizzi, 1954 – appartiene alla fam. Vennero-Fonti

18. La Sacra Urna – Salvatore Capizzi, 1956 – appartiene alla fam. Urso

19. L’Addolorata – Salvatore Capizzi, 1936 – appartiene alla fam. Cimino

Nel Febbraio del 1994 è stata costituita l’Associazione Piccoli Gruppi Sacri, in seguito alla quale anche gli altri organizzatori delle singole processioni si costituirono in Associazioni (del Giovedì Santo e della Real Maestranza).

Ritrovamento e storia del Cristo Nero, Signore della città

“..una preghiera inzuppata dell’angoscia del peccato dell’uomo e addolorata dalla sofferenza del Cristo..”
(Don Giovanni Speciale)

Caltanissetta, città di pietra arenaria e grotte. In una di queste, nel XIV secolo, fu rinvenuto da due fogliamara[21] un piccolo crocifisso ligneo, posto tra due ceri, dell’altezza di 85 cm, annerito dai fumi delle candele. Quando fu portato in città lo si pulì più volte, ma ogni volta il crocifisso tornava scuro: da qui il “nomignolo” di Cristo Nero. Di fatto, il simulacro di Gesù Crocifisso, una volta considerato miracoloso, cominciò ad essere venerato come Patrono della città: il Signore della città[22].

Fu patrono di Caltanissetta fino al 1625, anno in cui, pare in seguito ad un’apparizione di San Michele Arcangelo che bloccò un appestato alle porte della città, salvando Caltanissetta dalla peste[23], divenne “co-patrono”: San Michele viene festeggiato il 29 Settembre. Il culto e la devozione al Cristo Nero non sono però mai venute a mancare.

La costruzione di questo crocifisso è di epoca bizantina e iconograficamente deve essere collocata dopo il XIII secolo e prima del 1500. Infatti il Cristo ha una corona di spine, e solo un perizoma a cingergli i fianchi. I chiodi che ha conficcati in corpo sono tre. Il busto è contorto, le gambe sono piegate e il volto è reclinato a destra. Domina l’umanità e il dolore del calvario di Cristo. Crocifissi, come quello del “Volto Santo” di Lucca, che risalgono al XII secolo, hanno un’iconografia differente: la corona è d’oro, il Cristo è sfarzoso, è coperto da un’ampia tunica detta colobium e i chiodi sono quattro, due alle mani e due ai piedi. In questo caso è la regalità di Cristo ad essere esaltata.

Padre Angelico Lipani si prodigò per la costruzione di un Santuario nei pressi della zona del ritrovamento. Egli inoltre nel 1876 commissionò a Gaetano Chiaramonte da Enna la vara con cui si porta in processione il Cristo: costò £ 1238. La processione ebbe inizio dopo la costruzione del fercolo.

Padre G. Sorce, rettore attuale del santuario, si preoccupò di farlo restaurare. L’intervento è stato eseguito nel 1968 dall’indoratore Domenico Grasso: si tratta di legno imbevuto nell’oro.

Il Crocifisso, durante l’anno, è separato dal fercolo e sovrasta l’altare del Santuario. È fatto veto a chiunque, eccetto i Fogliamara, di toccare il crocifisso. E i Fogliamara stessi hanno cura nel toccarlo e lo fanno con profonda fede e umiltà, baciandolo solo sui piedi, non ritenendosi degni di baciare il volto del crocifisso.

Prima fase dei riti: SEPARAZIONE

Deimitazioni spazio-temporali e riconoscimento dei protagonisti

“Macro” e “micro” separazioni

Il termine “separazione” usato per intitolare questo paragrafo viene, come accennato nell’introduzione, dalla distinzione fatta da Van Gennep nell’identificare i tre momenti in cui si suddividono i riti di passaggio. Nel suo studio su tali riti infatti egli ne individua una struttura trifasica ricorrente e determinata in rapporto al tempo non rituale: una fase di separazione, una di liminalità (o transizione), una di reintegrazione.

La Settimana Santa può essere intesa come la fase liminale del più ampio periodo pasquale. La parola Pasqua già di per sé ci parla di un “passaggio”[24]. Passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita, dal peccato alla redenzione. Il primo di questi tre passaggi risale proprio all’istituzione della Pasqua ebraica. Con la venuta di Cristo, la Pasqua ebraica assume un nuovo e totalizzante significato: il corpo stesso di Gesù diventa l’agnello sacrificale. Infatti, nella celebrazione della Pasqua ebraica, durante l’ultima cena, Cristo inizia la propria passione (in quanto agnello di Dio) che lo porterà alla morte e resurrezione, istituendo così la nuova Pasqua cristiana. Con la Pentecoste si chiude il periodo pasquale, iniziato con il Mercoledì delle Ceneri. Il Battesimo è l’ulteriore segno tangibile del passaggio che l’uomo compie dal peccato alla redenzione.

All’interno di questo lungo periodo liturgico e nello specifico all’interno della Settimana Santa nissena, sono molti i momenti di separazione che è possibile dividere in “macro” e “micro”: un quadro temporalmente ampio (dalla Quaresima alla Pentecoste) all’interno del quale si vivono molti altri momenti di “separazione” verso un momento di liminalità.

La prima grande separazione è quella dal Tempo Ordinario[25] che corrisponde al Mercoledì delle ceneri. Giorno tra l’altro che significa la fine del Carnevale e l’inizio del tempo Quaresimale. Durante questi quaranta giorni iniziano già alcune celebrazioni preparatorie della Pasqua: mi riferisco ai sabatini di Quaresima. Si tratta di cinque sabati e un venerdì, ciascuno dedicato all’adorazione della Madonna e celebrato da una particolare categoria cittadina.

Nel XVI secolo la sera del Sabatino, all’uscita dalla chiesa di Santa Maria la Nova (l’odierna Cattedrale), i Milizioti onoravano il Capitano con una maschiata[26]. Dopo il Capitano ringraziava la Milizia invitandola a casa propria o in taverna dove offriva loro vino, uova sode e alimenti sott’olio.

All’interno di questa che ho indicato come una “macro” separazione (dal Tempo Ordinario al Tempo Quaresimale) è possibile individuarne altre (che ho indicato come “micro” non per minore importanza ma perché situate all’interno di un Tempo più grande) specificatamente riferite alle celebrazioni della Settimana Santa nissena. Esse avvengono nell’ambito dei “preparativi” delle feste di Gesù Nazareno, della Real Maestranza, delle varicedde e delle vare.

Gesù Nazareno

La preparazione dell’abbarcu

Come già accennato, la processione di Gesù Nazareno apre i riti nisseni afferenti la Pasqua. Si tratta di una processione devozionale, nella quale cioè è una statua e non il Santissimo Sacramento ad essere condotto per le strade della città.

Di seguito riporto le parole di uno degli associati che mi ha spiegato, durante un colloquio, come avviene tale preparazione: “Attualmente la statua vera e propria viene custodita nella sagrestia del Collegio[27]. La barca viene custodita insieme alle vare negli scantinati della chiesa di San Pio X. Qualche giorno prima la barca viene portata nell’atrio della biblioteca, in questa sede storica[28]. Il sabato mattina[29] la prima operazione è quella di montare la statua sulla barca[30]. Fino a qualche anno fa si faceva il sabato mattino stesso l’uscita della statua[31]. Da tre anni circa quest’operazione viene fatta un paio di settimane prima della festa perché la statua viene esposta accanto all’altare della chiesa del Collegio[32]. […] Il sabato mattina, per una devozione di noi soci e per una tradizione che dura da sempre, andiamo a raccogliere dei fiori di campo[33]. Fino a circa trent’anni fa tutto l’addobbo era fatto con fiori di campo. Ma si iniziava a raccoglierli una settimana prima. La maggiorparte dei nostri nonni erano contadini, vicini alle campagne. Oggi è più difficile trovarli: sono pochi, per i campi incolti, o trattati con diserbanti. Inoltre c’è il fattore estetico, il lavoro che viene fuori è anche più bello con i fiori di un fiorista. Inoltre sarebbe anche incompatibile con i nostri impegni. Ma sarebbe anche non al passo coi tempi. Però per mantenere una traccia della tradizione, abbiamo sempre addobbato l’orlo superiore e la base inferiore con i fiori raccolti: nel nuovo è un segno della tradizione[34]. La struttura della barca è metallica; uno scheletro in metallo alla cui struttura per consentire la collocazione dei fiori viene aggiunta un’ imbottitura di paglia. La struttura è fissa, ogni tanto si rinnova ma non è un lavoro annuale. Nella struttura ci sono dei tondini tutti imbottiti di paglia in cui vengono incastrati i fiori. Il sabato pomeriggio il fiorista, che lo fa da cinquant’anni, forse già con suo padre, comincia a incastonare dell’alloro per coprire e chiudere tutti gli spazi. Otteniamo quel sottofondo verde, tutto tranne che dove va la scritta[35]. Questo lavoro viene completato il sabato in serata. La domenica mattina inizia il lavoro nostro, per devozione li raccogliamo e collochiamo noi. Poi il resto il fiorista. I mazzolini vengono legati uno per uno. Il fiorista taglia lo stelo delle gerbere, gli colloca un puntale di plastica avvolto dal fil di ferro e lo infilza nella struttura. Negli anni si è migliorata anche la disposizione estetica delle gerbere, prima erano messi più a casaccio i colori. Ora i fiori con i colori danno proprio l’idea dello scafo, della struttura della barca. Ci sono poi una decina di lampade che vengono camuffate da rami di ulivo che hanno una doppia funzione: di nascondere e poi hanno il loro significato pasquale. Viene portata a spalla fuori sul carrello”.

Dal racconto dell’Ing. Giammusso è chiaro come tutto inizi già giorni prima della processione con la raccolta dei fiori e con l’addobbo della vara. L’uscita dal portone della Biblioteca vuole essere memoria dell’entrata di Gesù in Gerusalemme: il portone dell’atrio diventa la porta d’ingresso della Città Santa. In questo caso c’è proprio un atto fisico a farci individuare un momento ben preciso di distacco: Gesù entra in Gerusalemme, “entra” nella Sua settimana di Passione, inizia per noi la Settimana Santa. Gli associati del Nazareno si separano dal loro quotidiano, dal loro lavoro (che non è più – o comunque non per tutti – quello di contadino) e vanno nei campi a raccogliere fiori e rami di palme e ulivo[36]. Trascorrono questo sabato, che altrimenti sarebbe stato lavorativo, ad addobbare (in parte) con le loro mani la vara.

Real Maestranza

Il passaggio delle consegne

Si tratta di una cerimonia che avviene cronologicamente prima di tutte le altre preparatorie: quest’anno si è svolta poco più di un mese prima della Pasqua.

Durante la cerimonia il Capitano, lo Scudiero e l’Alfiere Maggiore entranti ricevono i simboli delle loro cariche dai Maestri che hanno ricoperto quel ruolo l’anno precedente. Vengono assegnate delle targhe ricordo anche al portabandiera e all’alabardiere capitanali uscenti.

Il passaggio delle altre cariche fra ciascuna categoria si effettua durante il secondo Sabatino di Quaresima. Le cariche durano tutte un anno e, a parte quella di Capitano, possono essere assegnate anche per semplice desiderio da parte dei “milizioti” di assumerle. Il desiderio deve essere sostenuto da una comprovata partecipazione, interesse e assiduità durante l’anno a tutto ciò che è la Real Maestranza. Un’istituzione cittadina per la quale molti soci lottano con passione e costanza intraprendendo diverse iniziative per la sua promozione sia in Italia che all’estero, tramite gemellaggi, convegni, incontri. Questo tipo di attività sono specificatamente espresse nello statuto dell’Associazione Real Maestranza[37].

Intronizzazione e velazione del Crocifisso

Con il passaggio delle cariche vengono individuati parte dei protagonisti della Real Maestranza. Dico “parte” poiché protagonisti sono anche tutti gli altri artigiani che ricoprono una carica specifica se non quella di “miliziota”.

Coi riti dell’“intronizzazione” e della “velazione” del Crocifisso si iniziano invece a delineare gli spazi che quotidianamente appartengono alla città e ai cittadini e che in occasione delle varie processioni pasquali diventano diversamente protagonisti anch’essi e vengono in qualche modo sacralizzati. Questi spazi, per il momento, sono: il percorso fatto dalla Cattedrale alla Cappella situata nell’atrio della Biblioteca Scarabelli e l’atrio e la Cappella stessi. Di fatto la zona della Biblioteca è già stata resa extraquotidiana durante i preparativi dell’abbarcu e con la processione del Nazareno: intronizzazione e velazione infatti sono due riti che si svolgono il giorno dopo, il Lunedì Santo cioè. Letteralmente, l’intronizzazione è l’operazione che consiste nel far sedere sul trono un re o un papa, a essa segue l’incoronazione. Anche i Vescovi residenziali, gli Abati e le Abbadesse vengono intronizzati (sia nella tradizione orientale che occidentale). Si tratta insomma di un insediamento solenne. L’atto contrario è la “deposizione”. Mettere un crocifisso in un luogo, caratterizza questo luogo stesso: gli dà una nuova connotazione che è quella Cristiana. In generale, quando si vuole caratterizzare come cristiano un luogo o un oggetto lo si contrassegna con una croce.

Il Crocifisso viene condotto in mano da un sacerdote dalla Cattedrale alla Cappella. Accanto al sacerdote cammina il Capitano in abiti borghesi (non si è ancora vestito), dietro sono alcuni rappresentanti della Real Maestranza e delle altre Associazioni. La Cappella è antica è piccola, tutta in pietra affrescata (ma degli affreschi rimane ben poco, solo un alone di colore che lascia intravedere qualche tratto). Il sacerdote pone il Crocifisso su una base in legno appositamente predisposta: il Capitano ne bacia i piedi e mentre si inizia a pregare egli va a inginocchiarsi. Alla fine, tutti i presenti prima di lasciare la cappella baciano i piedi del crocifisso. Quando tutti sono andati via, rimane solo il Cerimoniere con un aiutante che inizia a velare di nero il Crocifisso che il Mercoledì Mattina sarà affidato al Capitano e da questi condotto in processione. La velazione viene eseguita in modo differente a seconda da chi la esegue: lo scopo è anche quello di ottenere un bell’effetto estetico. Le immagini sacre, e con esse anche i Crocifissi, un tempo venivano velate durante il periodo Quaresimale perché l’attenzione doveva essere tutta rivolta al Santissimo Sacramento. Difatti la processione del Mercoledì mattina vede procedere il Crocifisso velato di nero portato dal Capitano e l’Ostensorio col Santissimo Sacramento portato dal Vescovo. L’attenzione principale deve essere per il Santissimo Sacramento.

La mattina del Mercoledì: la vestizione del Capitano

“Diario” del giorno del Capitano

Esulando dalla liturgia[38], il Mercoledì Santo può essere considerato a Caltanissetta come “il giorno del Capitano”. Ho voluto pertanto seguire da vicino tutta la sua giornata che, nel suo aspetto ufficiale, inizia alle ore 7.45 con l’arrivo in casa sua del Cerimoniere della Real Maestranza, il sig. Carmelo Cammarata, che lo aiuterà e seguirà nel rituale della vestizione.

L’impressione che si ha sin dall’inizio è quella di un giorno di festa[39]. L’ingresso del palazzo dove abita il Capitano è riconoscibile per i manifesti colorati attaccati sul muro accanto al portone sui quali è scritto a grandi caratteri: “W LA REAL MAESTRANZA”, “W LA CATEGORIA FABBRI”, “W IL CAPITANO”, “W LO SCUDIERO”, “W L’ALFIERE MAGGIORE”, “W IL PORTABANDIERA”, “W L’ALABARDIERE”, “W S.E. IL VESCOVO”, “W IL SINDACO”. Da un lato all’altro della strada domina la scritta, fatta di luminarie, “W IL CAPITANO DELLA REAL MAESTRANZA”. Quattro grandi piante e un tappeto rosso che conduce all’interno del palazzo arricchiscono ulteriormente questi addobbi.

Entrando in casa una tavola è apparecchiata con eleganza per l’occasione e una colazione a buffet, preparata da un servizio di catering, è pronta per tutti gli ospiti, amici, parenti e concittadini, che nell’arco della mattina andranno a fare i loro ossequi al Capitano, a salutarlo, a fare delle foto con lui. A dominare la sala è una poltrona in velluto color porpora con un ricco schienale in legno dorato che il Comune dà in prestito per questo giorno e che verrà usata al pomeriggio, quando tutte le categorie andranno a rendere omaggio al Capitano.

Intorno alle 11.00 un barbiere provvede a pettinare, con spazzola e fon, il Capitano.

La vestizione avviene nella camera da letto dove sono già stati sistemati i singoli capi della divisa da indossare. Il Capitano viene “aiutato” solo nella parte finale della vestizione, dopo aver indossato in privato camicia, bretelle, calze e coulotte[40]. Gli ospiti frattanto arrivati attendono nella sala d’ingresso che il Capitano esca abbigliato di tutto punto.

Il Cerimoniere inizia col sistemare la coulotte all’altezza del ginocchio. Il primo oggetto ad essere messo è la spada. Si tratta di un autentica arma del ‘700, da sempre tramandata di Capitano in Capitano e che resta in custodia per tutto l’anno al Capitano in carica. Si indossa quindi il gilet, la fascia tricolore in vita e il frak. Il tutto viene fatto con estrema cura e attenzione ad ogni particolare, ogni indumento è sistemato con spille da balia ove necessario affinché l’effetto sia, oserei dire, militarmente perfetto. Il Cerimoniere bada che la giacca cada a pennello, facendo “provare” al Capitano i movimenti che dovrà fare durante la processione (quando le sue braccia per esempio saranno sollevate perché sorreggono il Crocifisso ligneo). Anche la moglie del Capitano interviene per sistemare a puntino ogni più piccolo dettaglio, dalla caduta al bavero del frak al nodo del papillon. Infine viene indossato il cappello che ogni Capitano fa decorare a proprio piacimento pur mantenendo le medesime effigi che vengono solo interpretate in modo artisticamente diverso: di base c’è da un lato una fibbia nera la cui estremità termina su una coccarda tricolore e dall’altro lato la stella a otto punte, simbolo della Real Maestranza. Variano i motivi di decoro intorno alla stella, il materiale o i dettagli della fibbia per esempio.

A questo punto il Capitano è pronto per uscire e andare in sala dove viene accolto da applausi e festose grida. È il momento di fare le foto con la moglie, con le figlie, con i parenti, gli amici presenti, con i Consoli e le altre cariche della Real Maestranza, con gli ex-Capitani, i paggetti e i bambini delle scuole che sono venuti a festeggiarlo portando con sé dei cartelli fatti da loro e dei cappellini con su scritto “W il Capitano” e “Real Maestranza 2009 – Capitano M. Giuseppe Giordano”.

Frattanto, questa stessa mattina, alle ore 7 la banda musicale ed una rappresentanza delle categorie della Real Maestranza si sarà data appuntamento in Corso Umberto I dove un autobus[41] cittadino li avrà prelevati e condotti di casa in casa a prendere il portabandiera, lo scudiero e l’alfiere maggiore capitanali. Ritrovatisi poi tutti in Piazza, si forma il primo corteo e la Real Maestranza con in testa gli ex Capitani ed il Maestro Cerimoniere, si reca a prendere il Capitano presso la sua dimora. Una volta arrivati le categorie rimangono ad aspettare lungo la strada, mentre alcuni ex Capitani insieme con due vigili vanno in casa del Capitano per prelevarlo. Prima di uscire il Capitano rilascia una dichiarazione per la tv locale che riprende il tutto in diretta.

A soggetto gli ex-Capitani gridano con voce ferma “W IL CAPITANO DELLA REAL MAESTRANZA”, “W I COMPONENTI DI TUTTA LA REAL MAESTRANZA”.

Finalmente il Capitano esce scortato da due guardie della polizia penitenziaria in alta uniforme e seguito da un paggetto che porta un cuscino di velluto rosso (su cui andranno le chiavi della città). Non appena fuori dal portone, viene accolto dai cerimonieri e dai consoli che gli fanno ali. Il Maestro cerimoniere grida “W IL CAPITANO DELLA REAL MAESTRANZA”. La polizia e il comandante dei vigili salutano militarmente il Capitano. Una tromba intona le prime note di Onori alla bandiera, meglio conosciuta forse come “l’alzabandiera”. I tamburi rullano. Il Console di categoria si avvicina al Capitano e gli dice: “La milizia è stata schierata. Rendetele onore passandola in rassegna”. Così il Maestro Cerimoniere fa largo al Capitano tra la folla di persone e fotografi affinché egli, tenendo il saluto militare, passi la milizia in rassegna (la mustra). La milizia si è intanto schierata in un’unica lunga fila che applaude di continuo e al passaggio del capitano chi vuole, quando vuole, grida “W IL CAPITANO”, “W IL CAPITANO DELLA REAL MAESTRANZA”. La scorre tutta fino alla fine e torna indietro. Vengono sparati dei petardi. Un uomo del popolo, un fabbro, si trova in questo giorno a compiere gesti grandi, fuori del suo mondo ordinario, fuori del suo status civile.

Inizia il corteo che si dirige fino ad un palchetto di fronte l’entrata del Municipio. La disposizione è la seguente: apre l’alfiere maggiore, che porta il gonfalone simbolo della Real Maestranza, in prima fila in mezzo a due dei cinque tamburi reali, seguono gli ultimi tre tamburi reali e quindi tutta la banda musicale; sfila il Capitano fra le due guardie di polizia penitenziaria, lo scudiero, il portabandiera e tutta la categoria dai più giovani ai più anziani schierati su due ali; ogni categoria è chiusa con un’intera fila di ex capitani e consoli.

Consegna delle chiavi della città

Di fronte Palazzo del Carmine (il Municipio) viene allestito un palchetto su cui, quando la tromba suona ancora le prime note di Onori alla bandiera, il Sindaco consegna le chiavi della città al Capitano.

La consegna delle chiavi è ciò che rimane dell’antico potere politico e militare che aveva la Maestranza tutta e la persona del Capitano. Un potere nel tempo mal visto dalla nobiltà feudale che in essa vedeva un organo “democratico”. Anche la fascia tricolore che il Capitando indossa, cingendosi la vita, è segno di un potere ormai solo simbolico.

In origine il Capitano aveva addirittura il potere di liberare un detenuto che avesse commesso un reato minore concedendogli la grazia per il giorno di Pasqua.[42] Quest’uso è ancora in atto in Spagna, nella città di Malaga per opera della Confraternita Hermandad de nuestro padre Jesus “el rico”[43].

Tutti scendono dal palchetto e inizia il percorso verso la cappella della Biblioteca Scarabelli dove il Sacerdote assistente spirituale della Real Maestranza, in nome del Vescovo, consegnerà al Capitano il Crocifisso velato di nero che condurrà in processione.

Consegna del crocifisso velato

La cappella è affollata di fotografi e giornalisti. Il Capitano si inginocchia di fronte al Crocifisso posto sul tavolo che gli fa da altare e si inizia a pregare.

Il Sacerdote spiega quindi il significato di questa consegna del crocifisso al Capitano: “[…] Pocanzi il Capitano ha ricevuto le chiavi della città da parte del Sindaco perché il Capitano rappresenta tutta la cittadinanza; non è esautorato il Sindaco nella maniera più assoluta, però voglio dire che per noi è una persona importante, che ha questa rappresentatività anche civile; però non dimenticate che la Maestranza ha avuto un’origine religiosa. Allora la consegna del Crocifisso che viene data da un rappresentante del Vescovo in questo momento, significa che è anche rappresentante di questo momento religioso. Il Crocifisso rappresenta un po’ tutte le sofferenze, un po’ tutti i disagi che l’umanità ha. Allora portare avanti il crocifisso significa che rappresenta questa città con le sofferenze e allo stesso tempo i disagi che la popolazione ha. Per cui se noi entriamo in questa fase, pensiamo che questo momento religioso è il momento più importante perché non è il folklore quello che interessa, ma quello che interessa soprattutto è questo momento religioso. Quindi la consegna che io darò a nome del Vescovo del crocifisso è proprio rappresentativa di una città che cerca pace, che cerca serenità, che cerca lavoro. E il Capitano diventa questo Cireneo in questo momento che porta avanti tutte le nostre esigenze”.

Prima di prendere in mano il Crocifisso, il Capitano indossa i guanti neri. Prende il Crocifisso e ne bacia i piedi. Quindi esce preceduto dal paggetto e dal Sacerdote e seguito dal Sindaco, si forma il corteo e al suono dei tamburi e delle campane dell’adiacente Chiesa di Sant’Agata al Collegio inizia la processione penitenziale.

Quando il capitano diventa capitano?

Mi pare fondamentale rispondere a questa domanda. È possibile infatti individuare almeno tre momenti cruciali: l’elezione a capitano nell’ambito della propria categoria; il passaggio di consegne; la vestizione. In quale di questi tre momenti il Maestro d’arte diventa Capitano?

Per tentare di rispondere proviamo anzitutto ad analizzare uno per uno questi tre momenti.

a) L’elezione a “Capitano” – Essa avviene per votazione segreta all’interno della categoria di appartenenza da parte di tutti i membri. Il nome viene scelto tra quelli di coloro che hanno voluto candidarsi. La preferenza è data a chi negli anni precedenti ha ricoperto una o più cariche capitanali. Questo implica di per sé una certa anzianità (trascorrono fino a quarant’anni), considerato il fatto che il Capitanato si ha per ciascuna categoria ogni dieci anni. Un altro elemento di cui si tiene conto sono le sue possibilità economiche (ma queste presumo siano valutate personalmente da chi si propone per l’elezione). Alla fine delle votazioni viene fuori un nome, per maggioranza o unanimità di voti, che è quello dell’artigiano scelto e che per quell’anno sarà il Capitano della Real Maestranza.

b) Il passaggio delle consegne – Si svolge in una sede prestabilita: quest’anno è stato fatto all’interno del Teatro Regina Margherita. Partecipa la vecchia categoria nelle figure dello scudiero, dell’alfiere maggiore, del portabandiera e del Capitano i quali uno per uno consegnano i propri simboli ai nuovi eletti. A coordinare tutto è il Maestro Cerimoniere. Alla cerimonia sono presenti rappresentanti della Real Maestranza, il Sindaco, diversi giornalisti e televisioni locali.

c) La vestizione – Il rito della vestizione si esegue il Mercoledì mattina, giorno della processione della Real Maestranza. Avviene, come già visto, in casa del Capitano. Finita la vestizione il Capitano esce, passa in rassegna la milizia ed inizia il corteo processionale.

Quali sono gli elementi che differenziano e caratterizzano questi tre momenti? Io li individuerei nei seguenti: atto e potenza (prendendo in prestito e generalizzando due categorie aristoteliche), ufficiosità e ufficialità (con conseguente grado di riconoscimento sociale), luoghi fisici e tempi.

Per le prime due di queste condizioni, c’è un’escalation dal punto “a” al punto “c”. Ancora prima dell’elezione, in qualche modo si sa già chi sarà l’eletto poiché si sarà distinto lungo il corso di tutto l’anno in particolare (e degli ultimi decenni più in generale), quindi difficilmente si avranno delle sorprese. In tal senso “potenzialmente” il Maestro d’arte possiede già la carica Capitanale; la forma ufficiale di ciò la ottiene tramite la votazione. L’ufficialità è ristretta almeno all’inizio al gruppo di artigiani della sua categoria. Non è cioè una votazione/elezione che avviene pubblicamente. Il nome viene poi reso noto ai giornali e telegiornali locali. Un gradino più su in questo senso è il passaggio delle consegne che si veste già di una certa ufficialità: il Capitano viene riconosciuto tale dalle autorità cittadine e dall’Associazione tutta della Real Maestranza. La cerimonia è ripresa e trasmessa in diretta dalle reti locali: il Capitano inizia così ad essere riconosciuto dai cittadini che seguono la messa in onda. Inoltre prima della vestizione, il Capitano può trovarsi impegnato in altri momenti pubblici e, nonostante non si sia ancora vestito, inizia ad essere riconosciuto per strada dalle persone[44]. Il culmine dell’ufficialità si raggiunge però il Mercoledì Santo al mattino: il rito della vestizione lo consacra Capitano. Paradossalmente il rituale più “intimo”, più “privato” è quello ufficializzante. Finora tutte le sue uscite dal momento dell’elezione sono state fatte in borghese. È uso esporre in casa la foto in divisa. Foto che, per motivi tecnici, viene fatta nei giorni precedenti (per esempio deve essere incorniciata). Essa però deve essere esposta solo il Mercoledì pomeriggio, a vestizione effettuata. Anche questo fatto porta a considerare la vestizione e ciò che ne consegue come punto di svolta: fino a quando il “Capitano” non si è vestito, di fatto non è ancora “Capitano”. O meglio, lo è, ma in una sorta di fase embrionale[45]. Il giorno del corteo egli viene riconosciuto da tutta la cittadinanza accorsa alla processione e da quella che segue l’evento in diretta tv (e nelle successive repliche riferite comunque a questo giorno); viene riconosciutoli suo “potere” politico in quanto il sindaco gli offre le chiavi della città (che saranno restituite la Domenica di Pasqua); viene riconosciuto la funzione “religiosa” della sua persona e la natura religiosa della Real Maestranza tutta in quanto è il Capitano (e non un membro del clero) che porta in processione il Cristo velato di nero. C’è dunque un riconoscimento sociale ed un’ufficialità totale di questa figura centrale della Settimana Santa[46]. Anche se occorre precisare che tutti i diritti/doveri che tale ruolo gli impone vengono acquisiti nel corso della mattinata, con la consegna delle chiavi della città e del crocifisso. Per quanto riguarda le categorie di spazio e tempo, anch’esse differiscono nei tre momenti presi in considerazione e sono diversamente correlati tra loro a seconda dell’occasione. Da una parte l’elezione che avviene in un tempo lontano da quello Pasquale e in un luogo privato (quindi anch’esso “lontano”); dall’altra il passaggio delle consegne che avviene in un tempo prossimo a quello Pasquale e in un luogo pubblico (che quindi avvicina). In mezzo, anche se temporalmente successiva, sta la vestizione che avviene in un luogo privato (il più privato che possa esserci, la camera da letto che separa da tutto il resto il Capitano) ma in un tempo che è “dentro” quello Pasquale. Elementi, luogo fisico e tempo, che diversamente contribuiscono a realizzare la presa di coscienza sociale del capitanato, sia da parte della città, sia da parte del Maestro stesso. Da non dimenticare in questo processo di ufficializzazione, la fondante e prepotente inferenza dei mass media. Elemento che ha di certo influito su questo aspetto di “persona pubblica” del Capitano che è arrivato ad attraversare una fase oserei dire di “divismo”. Questa la sensazione vissuta: una costante e massiccia presenza di fotografi e telecamere che non si limitano a rendere conto di ciò che succede ma che talvolta lo “condizionano”, chiedendo per esempio al Cerimoniere di fermarsi mentre sta mettendo le calze al Capitano perché altrimenti le foto/riprese riescono male. C’è addirittura un fotografo ufficiale della Real Maestranza che deve, suo malgrado, sgomitare per portare a termine il suo compito di documentare visivamente una tradizione che di anno in anno resta uguale e al tempo stesso si trasforma di continuo (a partire dal fatto che le cariche capitanali sono a rotazione decennale).

La giornata del Giovedì: nuova separazione durante la transizione già in atto

Siamo ormai entrati nel pieno delle celebrazioni della Settimana Santa, ci siamo separati dal Tempo Ordinario, ma non tutto è ancora pronto. Volendo vedere ogni singola processione come un momento a sé stante all’interno di una fase più ampia, ognuno di questi momenti richiede una fase di preparazione che la distacca dalla quotidianità.

Mi sono soffermata sulla mattina del Mercoledì Santo ma vista solo dal punto di vista del Capitano e della Real Maestranza. In realtà il mercoledì mattina, così come il giovedì mattina, sin dall’alba, succede anche qualcos’altro: vengono cioè allestite rispettivamente le varicedde e le vare che sfileranno il mercoledì sera le prime ed il giovedì notte le seconde.

La differenza fra i due allestimenti è legata solo alle dimensioni e alle proprietà dei singoli gruppi sacri (di privati i gruppi piccoli, di Associazioni o Enti i gruppi grandi). La prima fase è quella dell’abbellimento della varicedda o della vara.

Camminando per le strade in questi giorni la città stessa si separa dalla sua quotidianità. Diventa naturale incontrare vicino a un semaforo o su un marciapiede un gruppo sacro in allestimento o già pronto per andare in Piazza. Una volta pronta, la vara/varicedda viene accompagnata in Piazza Garibaldi preceduta dalla propria banda musicale. Il traffico è chiuso solo all’interno del piccolo centro storico per cui i gruppi sacri confluiscono lì percorrendo le vie normalmente trafficate d’auto. Immagine particolarissima questa del traffico urbano pasquale a Caltanissetta. È un turbinio di musiche che si accavallano e si sovrastano, il rumore dei martelletti battuti sul ferro che danno i segnali di “via” e “stop” scandiscono questo brulicare di persone, musiche e stazioni della via crucis.

Non appena schierate, tutto si ferma, le bande non suonano più, è il momento migliore per ammirare o fotografare ogni singola vara. Adesso tutto è pronto, tutto sembra sospeso: si aspetta solo l’ora della partenza.

In un tangibile crescendo emotivo, il Mercoledì Santo per le varicedde e il Giovedì santo per le vare, si replica la medesima situazione di preparazione e sospensione.

Seconda fase dei riti: LIMINALITÀ

La settimana Santa fra laico e religioso

Presenza e funzione del clero

“La religione, come l’arte, vive in quanto è espressa nella performance, cioè in quanto i suoi riti rappresentano <>. Se vogliamo indebolire o togliere vigore a una religione dobbiamo innanzitutto eliminare i suoi riti, i suoi processi generativi e rigenerativi. Perché la religione non è solo un sistema cognitivo, un insieme di dogmi: è esperienza significativa e significato ricavato dall’esperienza.”
(V. Turner)

Clero sí, clero no. Tutte le processioni della Settimana Santa naturalmente sono a sfondo religioso: questo non implica però la presenza del clero in ciascuna di esse.

Quando, durante un colloquio con Mons. Campione, ho chiesto come mai l’altalenanza delle figure sacerdotali a seconda delle diverse celebrazioni e nello specifico il motivo della limitata presenza per la processione della Domenica delle Palme, mi è stato risposto che la Settimana Santa è già ricca: la presenza del clero anche nella processione del Nazareno appesantirebbe eccessivamente quella che tra l’altro è una processione di carattere prettamente devozionale. Pertanto è sufficiente che ad essa partecipi soltanto il parroco della Chiesa di Sant’agata al Collegio in quanto è da lì che essa muove.[47] A tal proposito ricordo le parole del mio vecchio parroco, Mons. Antonio Giliberto (scomparso nel 1997), parroco “storico” di Sant’Agata, il quale “malvolentieri”, se mi si consente l’uso di questo termine, partecipava a questa processione in quanto l’unica “vera” processione sarebbe quella del Corpus Domini in quanto viene portato in processione esclusivamente il Corpo di Cristo e non una statua.

Per quanto riguarda l’intronizzazione del crocifisso, la presenza del sacerdote si palesa necessaria poiché il Capitano non è ancora stato “autorizzato” a portarlo: ciò avviene con la consegna del crocifisso stesso il mercoledì mattina dopo la vestizione e la consegna delle chiavi. La presenza del sacerdote sottolinea ancora una volta questa distinzione di compiti del Capitano prima e dopo l’assegnazione ufficiale dei poteri civili e, in questo caso, religiosi.

La presenza dei sacerdoti è sicuramente più rilevante all’interno della Real Maestranza e della processione del Cristo Nero nonostante anche quest’ultima sia una processione “soltanto” devozionale come il Nazareno. Come mai? Credo che una risposta possa essere cercata nella natura e nell’origine delle due processioni. Nel caso del Cristo Nero si tratta del ritrovamento di un crocifisso al quale, da un certo momento storico in poi, è stata riconosciuta la natura di “miracoloso”. Il Nazareno ha anch’esso un breve trascorso di questo tipo testimoniato dagli ex-voto posti sulla statua ma, dalle notizie orali ricevute, si tratta di episodi molto più sporadici legati al periodo della guerra e, soprattutto, non legati a un riconoscimento di “miracoloso” alla statua. Al Cristo Nero, senza dubbio più “popolare” tra i cittadini, sono stati attribuiti molti miracoli (raccolti in un libro gelosamente custodito dai fogliamara) per i quali, mi riferisce Mons. Campione, non c’è mai stato un processo da parte della Chiesa però si crede alle grazie ricevute per mezzo di questo crocifisso. Un processo di verifica viene aperto di solito per la canonizzazione di qualcuno[48]. Inoltre il Cristo Nero, il Signore della Città, era anche patrono di Caltanissetta. Non è da escludere che questo legame coi cittadini abbia influito sulla devozione stessa verso una manifestazione piuttosto che sull’altra la quale è anche molto più recente. Al di là del fattore sentimentale ed emozionale, esistono delle differenze sostanziali concrete: la processione della Domenica delle Palme, come già esposto in precedenza, deve la propria origine a un desiderio della popolazione contadina di partecipare come categoria alla Settimana Santa; la processione del Venerdì Santo nasce come risposta del popolo ad un evento miracoloso (il legno del crocifisso che tornava sempre ad annerirsi). Queste mi paiono essere motivazioni più realistiche relative alla presenza massiva dei sacerdoti che vanno oltre la “ricchezza” della Settimana.

La Real Maestranza ha invece tutto un proprio percorso e rapporto con la Chiesa e nello specifico con la Curia Vescovile di Caltanissetta. Fino a circa trent’anni fa c’era per le dieci categorie artigianali la figura di un’unica guida spirituale. Adesso ogni categoria ha il proprio sacerdote di riferimento. Due cose ho notato durante questa Settimana nissena del 2009: la prima, il rispetto e l’attenzione data da parte dei rappresentanti delle Associazioni (Piccoli Gruppi, Real Maestranza e Cristo Nero[49]) alla figura del Vescovo, alla sua opinione, alle sue possibili reazioni di fronte ad alcune scelte che le Associazioni si trovano a dover fare anno dopo anno; la seconda, a fare da contraltare, il poco contegno osservato durante il Mercoledì mattina a differenza del silenzio assoluto e spiazzante che gli artigiani rispettano per il Cristo Nero[50]. Questa differenza che è davvero lampante e tangibile agli occhi di un osservatore fa apparire la Real Maestranza quasi una “sfilata” più che una processione. Esiste uno statuto il quale prevede all’art 11 (Obblighi degli associati) che “I soci (Associazioni di Categoria) hanno l’obbligo di vigilare e sono ritenuti responsabili di ogni comportamento poco serio o poco urbano dei propri associati durante i cortei e manifestazioni pubbliche relative alla Settimana Santa”[51]. Tale disparità la leggo come un’ulteriore conferma di quanto la processione del Cristo Nero sia sentita nel cuore dei nisseni di ogni età ed estrazione sociale. Paradossalmente, una devozione verso il Crocifisso di legno nero maggiore che verso Cristo Eucarestia.

La seconda osservazione: durante il mio “pedinamento” dei rappresentanti della Real Maestranza, mi è capitato di assistere a più discussioni relative proprio ad alcune scelte fatte per la Settimana Santa 2009. Uno degli oggetti del contendere è stata la decisione presa dall’Associazione di conferire un’onorificenza al sindaco della città di Salemi Vittorio Sgarbi senza prima discutere dettagliatamente di questo con la Curia. Prima di analizzare quest’episodio in particolare descrivo di seguito come ne sono venuta a conoscenza e come si sono svolti i fatti da un punto di vista cronologico.

La mattina del 2 Aprile i presidenti di Associazione e il Capitano hanno iniziato a girare per le scuole medie della città per far conoscere meglio le tradizioni nissene. Prima di iniziare con i ragazzi ci si è incontrati davanti l’atrio della Scuola Media Luigi Capuana e lì sono stata resa partecipe del problema in corso. Sui quotidiani di quel giorno si leggeva l’articolo che riferiva della reazione del Vescovo all’iniziativa delle Associazioni di conferire all’on. Vittorio Sgarbi la carica di console onorario della Real Maestranza per “la passione e il coraggio di aver riportato alla luce la ricchezza del patrimonio artistico siciliano”[52]. Nell’articolo appena citato si leggeva anche “Da stabilire la sede della consegna, Cattedrale, Palazzo del Carmine o Biblioteca.”

Di seguito altri stralci per delineare il percorso della vicenda, in questo contesto spunto per una riflessione sul rapporto fra la Chiesa e le Associazioni laiche e sui termini di folklore e sacralità in riferimento alle manifestazioni nissene.

Gli articoli sono entrambi del 02 Aprile 2009:

– Giornale di Sicilia: “Onorificenza a Sgarbi, ma il vescovo non ci sta” –

“Il Vescovo Mario Russotto è sceso in campo per prendere le distanze da una iniziativa <> come è spiegato in una stringata quanto durissima nota della Curia. […]La consegna materiale sarebbe dovuta avvenire – come da cerimoniale non ancora definito – in Cattedrale dopo la processione. La risposta della Curia non si è fatta attendere:<< Il Vescovo – rileva la nota del Vicario Don Pino La Placa – unitamente al presbiterio si dissocia totalmente da quest’azione privata presa dall’Associazione Real Maestranza e manifesta il proprio dissenso alla frammistione fra sacro e profano che sa soltanto di folklore, nel giorno in cui il centro di tutta la manifestazione è proprio la processione di Gesù Eucaristia. Il Vescovo inoltre vieta che simili manifestazioni vengano fatte in Cattedrale o altre Chiese della Diocesi o nella prossimità di esse>>”. E ancora: “<>”[53]

– La Sicilia: “Sgarbi console, il vescovo: << no a sacro e profano>>” –

“A spiegazione del comunicato don Pino La Placa ha detto: <>”. Per quanto riguarda i collaboratori di Sgarbi “hanno tenuto a precisare che <<è arrivato l’invito dell’Associazione Real Maestranza nel quale si parla d’intesa con il Vescovo>>. Infine: “Sorpreso di quanto accaduto si è dichiarato pure il presidente onorario dell’associazione Real Maestranza Gianni Taibi il quale ha precisato di aver comunicato l’iniziativa <> che l’avrebbero condivisa. <>[54].

Nei giorni seguenti la querelle sui quotidiani è andata avanti puntando l’attenzione sulla presenza o meno di Vittorio Sgarbi.

A questo aggiungo il parere espresso da Mons. Campione durante la nostra conversazione privata: dalla seconda guerra mondiale in poi, è iniziato l’intervento della Pro Loco anche in queste manifestazioni religiose creando una graduale turisticizzazione di esse. La presenza di Sgarbi avrebbe assunto scopi politici, folkloristici e di lustro per la Real Maestranza e la Settimana Santa. Una sorta di sponsorizzazione, anche politica, della città.

Alla fine l’onorificenza è stata consegnata e questo è avvenuto sul palcoscenico del Teatro Margherita dove sono stati dati a Vittorio Sgarbi un nastro giallo e blu con la stella della Maestranza, la riproduzione di uno scudo dello scudiero ad opera del Maestro Giovanni Corbo, una targa fatta personalmente dal Capitano in carica. Il discorso per la consegna è stato occasione per portare l’attenzione sul significato di folklore a partire dall’etimologia di questa parola: folk = gente. Lo stesso Sgarbi ha sottolineato come il folklore sia “ragione di eminenti studi antropologici che danno ad esso una dignità altissima di valore popolare. […] Eliminare il folklore vorrebbe dire eliminare la Real Maestranza, parte positiva e nobile del folklore, valore altissimo che dà senso alle feste di popolo: esse sono folkloristiche nel senso che rappresentano nei costumi, negli atteggiamenti, nei riti, qualcosa che è tradizione popolare”. L’accezione usata dal vescovo e dal vicario era senz’altro negativa e ha portato a questa crisi “stra-ordinaria” tra religione e folklore; crisi che dice ancora Sgarbi si è fatta “voce della crisi ordinaria tra sacro e profano”. La specifica nella nota della Curia che diceva no all’onorificenza nelle chiese e in prossimità di esse, al di là dell’aspetto grottesco di quell’ “in prossimità di esse”, delimitava nettamente lo spazio sacro da quello profano. La cerimonia svolta all’interno di un teatro ha fatto di esso “un’ecumene della città laica”: tale la definizione data durante il suo discorso dall’on. Sgarbi. Tale netta distinzione è palesata non solo dal clero ma in particolare anche da parte di alcuni rappresentanti della Real Maestranza: si tratta di due diversi ruoli e dell’autonomia delle Associazioni riguardo all’aspetto non strettamente clericale delle processioni nissene del periodo pre-Pasquale. Una forte identificazione del gruppo in se stesso: “noi siamo la Real Maestranza” e pertanto è l’Associazione che decide se e a chi conferire delle onorificenze, delimitando inconfutabilmente i limiti in campo decisionale della curia. Il problema poi del luogo del conferimento ha evidenziato lo stesso tipo di distacco da parte della Chiesa sull’inferenza che le Associazioni possono avere in determinate decisioni. Quindi da entrambe le parti una delimitazione dei rispettivi territori d’azione.

Alla fine di questo che (al di là dei retroscena politici che possono esserci e che esulano da questa ricerca) pare essere stato un equivoco a livello di comunicazione, per la conclusione delle cerimonie tutte della Settimana Santa, in Cattedrale dopo la Santa Messa il bacio tra Sgarbi e il Vescovo ha significato, tra l’altro, che se tra sacro e profano non può esserci coincidenza può esserci per lo meno dialogo.

Il dialogo con le Associazioni è spesso protagonista a suon di riunioni in Curia anche per un’altra questione di carattere organizzativo stavolta riguardante la processione del Giovedì Santo.

Come ho accennato esiste un altro punto nodale nei rapporti tra gli organizzatori e la curia: annoso problema che si ripete puntualmente (dacché ne ho memoria io e anche da quanto mi è stato confermato nei vari incontri con i protagonisti della diatriba) riguarda l’orario di chiusura della processione delle vare. L’orario storico di questa processione prevede la partenza alle ore 21.00 e la spartenza[55] tra le 4.00 e le 5.00 del mattino seguente. Questo va in modo categorico contro il lutto e il silenzio cattolico del Venerdì Santo. Allo scoccare della mezzanotte compresa fra il Giovedì e il Venerdì tutto dovrebbe essere concluso: qualsiasi tipo di attività e in specie quelle cosiddette “folkloristiche”. Il giro compiuto dalla processione è molto lungo e trattandosi di gruppi statuari molto grandi e pesanti che vengono spinti a mano va da sé che i tempi siano altrettanto lunghi. Inoltre è tradizione storica anch’essa la pausa da mezzanotte all’una per permettere alle bande musicali e ai portatori di ristorarsi[56]. Negli anni passati essa era purtroppo sinonimo per molti di ubriachezza motivata dal freddo notturno da cui difendersi. Quest’abitudine è stata man mano eliminata o comunque notevolmente ridimensionata. Anche questo era motivo di discussione non solo con la Chiesa ma anche con i cittadini stessi che si lamentavano di questo momento. La proposta di ogni Vescovo che si è succeduto nella Diocesi nissena è stata quella di modificare il tragitto percorso dalle vare dimezzandolo limitando così la processione entro la mezzanotte.

Questa idea non è mai stata accettata e probabilmente non è mai stata seriamente presa in considerazione. Ecco che torna la difesa da parte delle Associazioni del proprio terreno di competenza.

Ancora una volta la crisi tra laico e clericale mette a fuoco i limiti d’azione di ciascuno. In questo caso porta anche un’altra conseguenza importante: la mobilitazione cittadina a difesa di una tradizione che si vuole fortemente mantenere, al di là delle motivazioni liturgiche che vi si oppongono.

A differenza della precedente, questa è una crisi che si ripete annualmente e che in realtà non trova una vera risoluzione. La fine della crisi non è tale: il fatto che la processione prosegua fino alle prime ore del mattino non significa che la crisi è stata risolta ma solo che è stata presa una delle due decisioni possibili. Di fatto la crisi non è risolvibile in quanto delimitata entro due poli opposti e inconciliabili: la liturgia e la tradizione. Inconciliabili in quanto la liturgia non è modificabile (poiché legata al principio fondamentale di tutto il cristianesimo: la morte e resurrezione di Gesù) e la tradizione, in questo caso, va contro di essa e, se la tradizione non è legata a delle regole scritte, essa è legata a regole popolari ben più forti di qualsiasi statuto o indicazione della Chiesa.

Altro punto di disaccordo è la rappresentazione della Scinnenza che inizialmente veniva fatta il Sabato Santo. Nel corso degli anni e per decisione episcopale la messa in scena è stata più volte spostata di giorno all’interno della Settimana Santa: il motivo anche qui è il silenzio che deve essere liturgicamente rispettato dal Venerdì Santo alla Domenica di Resurrezione. In questo caso il cambiamento ha avuto una presa più facile non trattandosi di una processione radicata nella memoria e nella fede popolare, bensì di una rappresentazione teatrale degli ultimi momenti della vita di Cristo. Il testo usato non segue i Vangeli riconosciuti ma probabilmente è stato tratto dagli Apocrifi. La sceneggiatura e di conseguenza la recitazione è molto artefatta e plateale. Il testo è pre-registrato dagli stessi attori e durante la messa in scena essi si limitano a seguire la registrazione col labiale e renderla con ampi gesti mimici. Il risultato oggettivamente non è dei più belli: si perde molto sul piano emozionale a causa della poca semplicità e di certe lungaggini del testo. Migliore invece è la cura dei costumi e della scenografia (composta di pochi ma essenziali elementi).

Infine porterei l’attenzione sulla processione delle Varicedde: se ad essa il clero non partecipa in nessun modo (mentre per le vare quest’anno il Vescovo ha accompagnato L’ultima cena per la prima parte del giro) è pur vero che con queste due processioni la Chiesa ha molto da condividere. In questo caso ho avuto modo di apprezzare l’avvicinamento da parte di Mons. Russotto ai giovani di Caltanissetta attraverso un’iniziativa presa durante la Quaresima. Negli ultimi due anni il Vescovo ha voluto la realizzazione di un momento chiamato Contemplando le vare: una Via Crucis, cioè, fatta di notte usando le vare come stazioni. È stato ancora Mons. Russotto a volere che la cerimonia della riconsegna delle chiavi dal Capitano al Sindaco avvenisse all’interno della Chiesa Madre. I conflitti esaminati portano spesso a una maggiore coesione dei vari gruppi tra cui essi nascono; anche nei casi in cui essi si ripropongono portano comunque ad una maggiore adesione da parte di tutti al medesimo progetto sociale e culturale che è in atto. Secondo Gluckman “il conflitto è un elemento addirittura <> e un coefficiente funzionale al mantenimento di una determinata struttura sociale, che va indagata come un complesso interattivo di relazioni definite e con un proprio movimento che non ne trasforma i caratteri fondamentali, anzi li conferma”[57].

Presenza e funzione del Capitano

“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. -Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?– chiede Kublai kan.- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra – risponde Marco – ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: -Perché mi parli delle pietre? È solo l’arco che m’importa. Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.”
(I. Calvino)

Partendo dalla distinzione che Arnold Van Gennep fa tra riti preliminari, liminari e postliminari[58], mi sono chiesta che posto occupasse il Capitanato. Quella del Capitano è infatti l’unica figura della Settimana Santa nissena a compiere un passaggio da uno status ad un altro. Ma, a differenza di quanto si possa immediatamente pensare, il passaggio effettuato non è da Maestro d’Arte a Capitano. Guardando meglio ci accorgiamo che il passaggio che quest’uomo compie è da Maestro d’Arte a “ex-Capitano”. Il fatto che il nuovo status sia qualcosa che il nome stesso indica come una condizione finita (“ex”), potrebbe suscitare un’idea di paradosso, ma di fatto è quello il vero nuovo status che il Maestro acquisisce e detiene per tutto il resto della sua vita. Il Capitanato invece è la fase liminare di questo passaggio. Fase che trova i suoi riti all’interno della Settimana Santa e che dura tutto un anno, fino alla consegna della carica al nuovo Maestro d’Arte. Il Capitanato in generale è così una continua fase liminare che vive la città di Caltanissetta: fase intangibile eppure esistente.

Essa attraversa a sua volta diversi momenti che vanno dall’elezione alla vestizione[59]. Una volta entrato nella liminarità del suo status il Capitano assume una serie di compiti e funzioni, di carattere civile e religioso, che altrimenti non avrebbe. Per quanto riguarda la sfera civile, durante la Settimana Santa diventa il rappresentante della città attraverso il rito della consegna delle chiavi che detiene fino alla Domenica di Pasqua quando con una nuova cerimonia le rende, all’interno della Cattedrale, al Sindaco. Acquisisce anche il privilegio di indossare la fascia tricolore con l’effige della Repubblica Italiana: la fascia è un elemento del suo abito. Un altro simbolo di questo potere lo troviamo in casa sua: si tratta della poltrona antica che il Comune gli dà in prestito per la Settimana Santa e sulla quale il Capitano si siede solo dopo la vestizione, al mercoledì pomeriggio quando le delegazioni delle singole categorie artigianali vanno a rendergli omaggio, riconoscendo così la sua autorità. Altro riconoscimento sociale è la nomina di ogni Capitano a Cavaliere della Repubblica.[60]

Dal punto di vista religioso, oltre ad avere accordato il secondo sabatino di Quaresima, egli è autorizzato a portare il crocifisso durante la processione del Mercoledì mattina: compito questo usualmente attribuito al clero. Inoltre, come già esposto il Capitano negli anni passati aveva il potere di liberare un detenuto: potere civile di natura religiosa. Infine la figura del Capitano diventa portavoce del messaggio pasquale di fede nella resurrezione (intesa in modo ampio come passaggio da una situazione di buio, di male a una di luce). Infatti è tradizione consolidata che il Capitano durante la Settimana Santa si rechi in visita presso tutti i reparti dell’Ospedale “Sant’Elia” di Caltanissetta, presso la struttura di accoglienza per anziani “Casa Famiglia Rosetta”, presso il centro dell’“Unione ciechi” e dai detenuti del carcere “Malaspina”.

Questo giro viene fatto il Venerdì Santo al mattino.

Ciò mi fa delineare un nuovo tipo di “pubblico”. Malati, ricoverati, non vedenti e detenuti sono tutti, loro malgrado, in una situazione di deficit nei confronti delle manifestazioni pre-pasquali non potendo parteciparvi in modo diretto. È un pubblico presso cui si reca una rappresentanza dello “spettacolo” di cui però porta solo il costume e il messaggio. Il Capitano continua ad essere uno dei protagonisti attivi della Settimana Santa delineando la “passività”, intendo fisica, di questa platea.

Il Vescovo dal 2008 ha voluto che la Real Maestranza insieme con il Cristo Nero e l’Urna fossero presenti nella conclusione del giro pastorale nisseno sottolineando così la funzione sociale e religiosa del Capitano della Real Maestranza, foriero di fede.

Rispetto al passato sono cambiati alcuni dei privilegi che il Capitano aveva: in origine era il capo militare delle Milizie, poteva portare la spada e l’archibugio, simboli prettamente nobiliari e dei gendarmi (oggi può portare la spada[61]); aveva anche il diritto parziale sui dazi degli opifici e dei gendarmi.

Simboli e Gerarchie della Maestranza

Se i Maestri d’arte sono tali sempre, al di là delle celebrazioni della Settimana Santa in quanto si tratta del loro mestiere, è pur vero che all’interno di essa noi li distinguiamo in modo chiaro e preciso. Questo perché la gerarchia di origine militare è visibile nel loro abbigliamento e negli oggetti in uso.

La gerarchia è la seguente:

– Capitano (paragonabile al grado di Colonnello)

– Alfiere Maggiore (è il porta vessillo della Real Maestranza, scelto all’interno della Categoria Capitanale)

– Scudiero (paragonabile al grado di Sergente Maggiore)

– Portabandiera (paragonabile al grado di Sergente)

– Alabardiere (paragonabile al grado di Caporalmaggiore)

– Maestri d’Arte (erano i Milizioti ovvero i soldati semplici)[62]

Ogni compagnia d’Arte ha il proprio Portabandiera e Alabardiere. Lo scudiero è solo del capitanato.

Le cariche vengono assegnate secondo criteri di rotazione, partecipazione, desiderio, votazione: ma per lo più si tende a mantenere un criterio rotativo tra i soci più assidui. Emerge in questo gruppo quella che Turner individua come antistruttura. Nella sua analisi dei drammi sociali, egli ne individua l’origine in quelli che chiama punti di rottura: il dramma sociale ha luogo, cioè, quando in una società complessa si genera un punto di svolta rispetto alla struttura consolidata della società stessa. Tale rottura fa affiorare degli strati sotterranei della struttura, rende visibili gli elementi oppositivi ad essa, fa emergere l’ipotetica antistruttura. I drammi sociali attivano dunque, secondo Turner, delle opposizioni all’interno di gruppi, classi, categorie, etnie, ecc. Opposizioni che si trasformano in conflitti da risolvere rivedendo in modo critico le caratteristiche e gli elementi in vigore e ormai cristallizzati e socialmente accettati degli stessi gruppi. Tutto ciò avviene durante la fase che Arnold Van Gennep definisce liminale.

All’interno della Real Maestranza, in un tempo delimitato (il Mercoledì Santo), si verifica un’elevazione temporanea da uno status inferiore ad uno superiore. Questo è evidente soprattutto nella persona del Capitano che acquisisce antichi poteri civili e religiosi. Parallelamente, le dieci categorie artigiane rivivono il loro originario status di Corporazioni con una funzione centrale nella vita sociale e politica della città. All’interno della struttura sociale vigente torna ad emergere una struttura sociale possibile (o antistruttura)[63].

Andando più a fondo, sono ravvisabili momenti di conflitto all’interno di ciascuna categoria: ogni artigiano desidera dimostrare la propria dedizione, fede, motivazione all’interno del gruppo e questo, cui consegue la rotazione delle cariche, porta ad una continua trasformazione interna e ad una dialettica tra il singolo ed il gruppo: la risoluzione dei conflitti è affidata alla saggezza e conoscenza dei membri più anziani del comitato direttivo. È infatti quest’organo a prendere tutte le decisioni finali per le quali, però, i criteri non sono esclusivamente legati a un discorso di anzianità. Anche in questo gruppo (come vedremo per i fogliamara più avanti) sono dunque identificabili alcune caratteristiche della communitas di cui parla Turner.

Vediamo una per una le cariche di cui si compone la Real Maestranza.

Capitano – Il suo abito è specchio delle diverse mode avvicendatesi fino al 1550 ca. epoca in cui il Primo Ufficiale indossava una coulotte (il pantalone attillato chiuso al ginocchio), un corpetto in metallo che fungeva da armatura (oggi il Capitano indossa un gilet e una marsina del ‘700), il cappello piumato (feluca) ha preso il posto dell’elmo piumato, guanti, fascia tricolore, spadino con l’elsa dorata (esso ha 450 anni ma recentemente gli è stata tagliata la punta per l’ingresso nella città del Vaticano). A ciò si aggiunge la fascia tricolore[64].

Alfiere Maggiore – Indossa un pantalone bordato in oro sui lati, una camicia bianca con un ampio colletto arrotondato, un gilet con doppia fila di bottoni. Non indossa la giacca.

Scudiero – Lo Scudiero viene chiamato anche il “vice-Capitano”. Questo perché spesso chi ricopre questa carica è eletto Capitano per l’anno in cui quella categoria sarà di turno. Ma non è una regola.

Portabandiera[65] – Il Portabandiera è uno dei milizioti. Non ha un abito particolare.

Alabardiere[66] – È uno dei milizioti. Lo distingue l’alabarda (figura 36) che porta in processione. Ogni categoria d’arte ne ha uno.

Milizioti – Sono tutti gli artigiani. Sono in abito da cerimonia a indicare la solennità delle celebrazioni della Settimana Santa

Queste sono le cariche corrispondenti al vecchio ordinamento militare.

Ve ne sono poi altre di natura statutario. Esse sono:

– Console Generale – è il Presidente dell’Associazione Real Maestranza – cordone di comando bianco e rosso con pendaglio d’oro

– Console di categoria – cordone di comando oro e rosso

– Responsabile di direttivo dell’Associazione generale – cordone oro e azzurro[67]

– Gran Cerimoniere – in genere il Maestro più anziano, decano di tutta la Real Maestranza – treccia di sei nastri d’oro

– Maestro Cerimoniere – anch’egli veterano della Real Maestranza ma non anziano – treccia a tre nastri e un nodo Savoia centrale tutto in oro

– Cerimoniere – treccia a due nastri e un giro di nodo in oro

– Responsabile di corteo o Maestro di sfilata – collare d’argento a catena.

Gli ex Capitani indossano al collo una medaglietta verde simbolo della nomina a Cavaliere della Repubblica. Fino al 1900 vi era anche la figura dei Mazzieri che annunciavano l’arrivo del Capitano e delle autorità cittadine.

I componenti della Real Maestranza presenti in Vaticano durante il Giubileo del 2000 indossano al collo una medaglietta gialla.

Altri elementi chiaramente simbolici sono i colori e le candele.

I componenti della Real Maestranza quando partono da casa del Capitano indossano guanti e papillon neri e non hanno le candele. Le bandiere sono cinte sulla punta superiore dell’asta da un nastro nero. Stessa cosa vale per le alabarde che all’inizio della processione hanno un nastro nero intorno ad esse. Così lo scudo è fasciato di nero. Il nero in questa processione vuole essere simbolo di penitenza. Cristo è morto.

Dopo la consegna delle chiavi della città, il corteo si dirige verso l’atrio della Biblioteca Scarabelli per la consegna del crocifisso velato di nero. Qui tutti gli artigiani prendono la propria candela: essa è ciò che rimane degli archibugi che una volta portava la milizia, pertanto essa viene presa in mano solo dopo la simbolica consegna del potere civile al Capitano e di conseguenza a tutta la sua milizia. Si procede quindi verso la Cattedrale dove tutti cambiano i guanti e il papillon neri in bianchi. Solo il Capitano cambia anche le calze. I nastri di bandiere ed alabarde vengono cambiati con nastri bianchi: segno, il bianco, della resurrezione di Gesù. Al Crocifisso viene tolto il velo nero e inizia la seconda parte della processione che insieme al clero accompagna il Santissimo Sacramento e si dirige verso la Biblioteca Scarabelli e infine rientra in Cattedrale per la benedizione finale.

Assetto sociale dei Fogliamara

“Le amicizie profonde tra novizi sono incoraggiate ed essi dormono intorno ai fuochi del capanno d’iniziazione in gruppetti di quattro o cinque amici particolari. Tuttavia, di tutti si pensa che siano legati da vincoli speciali che persistono dopo la conclusione dei riti, fino anche all’età anziana”
(V. Turner)

A differenza della figura del Capitano, il fogliamaro nasce tale: è uno status ereditario. Di fogliamara per mestiere, di fatto, non ce ne sono più; la categoria però è rimasta ed è fortemente tutelata dagli stessi componenti e dall’Associazione in cui si sono costituiti.

Michele Bellomo, giovane e appassionato presidente dell’Associazione, mi dice che “I Fogliamara sono novantasei. Il numero è fisso perché altrimenti diventerebbe ingestibile. […] La processione[68] si distingue per compostezza, educazione, fede, devozione. Non voglio che si perda questo momento di lutto vero e proprio. […] Se viene a mancare qualcuno dei più anziani c’è ricambio generazionale all’interno delle famiglie dei defunti. Per entrare si devono fare tre anni di gavetta, dimostrare compostezza, educazione, devozione. Tanti chiedono, ma principalmente chiediamo la discendenza. Se c’è va bene, ma se apriamo le porte a tutti, tutta Caltanissetta sfilerebbe col saio viola ma si rischierebbe di perdere la categoria dei fogliamara e non si può”.

Poche ma fondanti parole: si nasce discendente di un fogliamaro ma questo non garantisce l’ammissione al gruppo dei novantasei ladatori che hanno l’onore di portare il Cristo in processione indossando il saio viola. Eppure la discendenza è il primo e irrinunciabile requisito per avere la possibilità di far parte di questo gruppo nel momento in cui uno dei novantasei ladatori in carica decede. Inizia così per lui (si tratta esclusivamente di uomini, così come per la Real Maestranza[69]) un percorso di transizione che dura tre anni: durante questa fase liminale egli deve dimostrare di avere i requisiti umani, morali e di fede necessari per essere ufficialmente ammesso. Viene messo sotto esame un po’ il proprio modo di vivere e credere. Non si tratta di prove fisiche da superare una volta ma di una vera e propria dimostrazione che la propria vita, il proprio interesse sia rivolto alla fede cristiana, alla devozione verso il Cristo. Durante questi tre anni egli partecipa alla processione e agli incontri che i fogliamara fanno durante l’anno: ed è in queste occasioni che deve dimostrare “compostezza, educazione, devozione”. Alla fine dei tre anni entra ufficialmente a far parte dell’Associazione dei fogliamara. Il gruppo si distingue nell’abbigliamento processionale: indossano un saio di colore viola che arriva fin sotto il ginocchio ed è stretto in vita da una corda e compiono tutto il percorso a piedi scalzi assolutamente incuranti del tempo metereologico e delle condizioni della strada. Rispettano il digiuno del Venerdì Santo. Durante la fase liminale dei tre anni di prova si instaurano quei legami tra soggetti liminali e soggetti già passati al nuovo status che porteranno alla formazione di quella che ha tutte le caratteristiche della communitas[70] (ideologica e normativa) turneriana: il gruppo dei ladatori[71]. Communitas che si rivela pubblicamente dopo il periodo propriamente liminale di questo gruppo (fatta eccezione per i soggetti che sono in fase di transito) ma che esiste sempre pur prendendo origine dalla fase liminale. Inoltre questa communitas vive pubblicamente nel giorno del Venerdì Santo, giorno in cui inizia la sospensione tra la morte e la vita della resurrezione, giorno, come osserva Giuseppe Lipani, liminale per eccellenza”[72].

All’interno del gruppo c’è una prima vuci ed una secunna vuci: tutti gli altri fanno da coro. Ogni strofa è iniziata dalla prima vuci e completata dalla secunna vuci. Il coro interviene con un caratteristico lamento vocalico. Chi vuole alla fine delle strofe grida forte “E gridamu tutti” e tutti rispondono a gran voce “Viva la misericordia di Dì”.

Questa attenta selezione, spiega Michele Bellomo, è volta a preservare la categoria: si rischierebbe di perderla se si permettesse a chiunque di farne parte solo per desiderio o per devozione al Cristo Nero. È privilegio esclusivo dei fogliamara[73] toccare il Cristo Nero: nessun altro può farlo. E anche loro devono seguire delle regole nel farlo. Regole che sottolineano l’umiltà e il rispetto totale verso Gesù Cristo. Michele Bellomo a riguardo mi racconta che “Il Crocifisso durante l’anno è posto dietro l’altare. Può essere toccato solo dai fogliamari. Non va toccato assolutamente. Tempo fa un membro l’ha toccato e baciato in viso: l’ho sbranato perché non ne siamo degni, al massimo si può baciare nei piedi o nel volto. Il cristo non va toccato”.

Per quanto riguarda la ladata, testo del poeta Deca Niculaci, essa non viene insegnata con delle “lezioni” volte a questo. Bensì, e anche questo mi viene spiegato dal presidente dell’associazione, la ladata viene tramandata di padre in figlio: “Sono i figli che chiedono ai padri…mi insegni un pezzo di ladata…mi spieghi questo pezzo..”. Quest’anno una delle voci era di un bambino di circa dieci anni.

Inquadriamo quindi due modi di essere fogliamaro: per nascita e per selezione. Tutti i discendenti di un fogliamaro lo sono, ma solo chi riesce ad entrare nel gruppo dei novantasei ladatori lo diventa ufficialmente con gli onori che questo status porta con sé.

Aspetti sociali e performativi

“Dalla tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni volto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura; né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno di acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alveo materno” (L. Pirandello)

Livelli di partecipazione

Qual è attualmente la funzione sociale del rito? Perché esso continua a vivere all’interno di un gruppo, cittadino in questo caso? Durkheim ha ampiamente messo in luce quale sia la componente sociale del rito: esso fonda e rinsalda i legami interni della comunità. Una risposta a questa domanda pertanto non può prescindere dalla storia del rito specifico che si analizza. I riti e le cerimonie che si continuano a tramandare e vivere durante la Settimana Santa a Caltanissetta hanno radici profonde non solo perché lontane nel tempo ma proprio a livello viscerale della fede, della devozione, dell’abbandono emotivo e dell’anima alla sfera divina. Le tragedie delle miniere di Gessolungo[74] e Trabonella sono sempre vive nel ricordo dei nisseni: ancora oggi le persone che allora vivevano in città ricordano un indescrivibile via vai di ambulanze, di mezzi di soccorso che dalla città procedevano a sirene spiegate verso le campagne, i morti, i bambini senza nome rimasti intrappolati in quelle profondissime gallerie sotterranee che andavano giù per centinaia di metri, nell’oscurità più assoluta. Il buio, il nero: questa la prima parola sempre presente nei ricordi dei minatori, oggi adulti. La prima terrorizzante discesa avvolti dal nero, dal buio, interminabile discesa verso non si sapeva cosa, all’interno di gabbie che venivano calate di sotto senza luce, senza nulla. La nudità una volta arrivati al proprio livello della miniera perché il caldo non permetteva di indossare nulla e allora la scelta costretta era soffrire per il male ai piedi che restavano scalzi piuttosto che tenere le scarpe e farli letteralmente cuocere all’interno delle calzature. Unico indumento era un grembiule per coprire i genitali: unico elemento di dignità concesso ai minatori. Non vedevano la luce mai: scendevano quando il sole non era ancora sorto, lavoravano avvolti dall’oscurità, ritornavano su quando il sole era già tramontato[75]. La devozione dei minatori ha reso la processione del Giovedì Santo quella che è oggi, almeno sul piano estetico. Il fattore religioso probabilmente si è perduto negli anni anche se in questo senso vanno fatte importanti distinzioni di pubblico. Alla primordiale funzione del rito di mantenere e ricordare l’identità di un gruppo, ricordarne le origini, lo status, la fede, a tutto ciò si è sommato negli anni una sorta di valore aggiunto presente nella “visibilità” assunta dalle persone che ne fanno parte e che contribuiscono a mantenere viva ogni tradizione. Lo stesso vale per tutte le processioni pre-pasquali: dalla Real Maestranza che ci riporta nel modo più diretto all’antica struttura politica e sociale della città e che ci ricorda quanto essa sia fondata sul lavoro, alla processione di Gesù Nazareno che mette in luce un’altra categoria di lavoratori e fedeli alla base anch’essi della crescita e dello sviluppo della città. Lo stesso per il Cristo Nero dove la fede prende campo in modo spiazzante e le cui origini ancora una volta riportano al medesimo comune denominatore: lavoratori credenti. Fede e lavoro alla base della struttura cittadina, alla base dei riti che continuano ad essere compiuti, che motivano il persistere degli stessi.

Il pubblico è spettrografia della città e in quanto tale è fatto di molteplici gradazioni il cui colore è dato da fattori presenti in modo variabile. Il pubblico è fatto di pubblici: quanti e quali sono? Se è vero che una performance è data dalla coesistenza in uno stesso tempo e luogo di un produttore e un ricevente, è vero altresì che qui il produttore è ricevente al tempo stesso. E questa è una prima macro distinzione. Tutte le persone che realizzano le varie processioni (maestri d’arte, fogliamara, proprietari dei gruppi che sfilano con essi, soci dell’Associazione Gesù Nazareno), che concretamente le realizzano (le organizzano e ad esse partecipano fisicamente) sono i produttori e al tempo stesso essi sono doppiamente pubblico: sono pubblico della stessa processione in cui sfilano (così come un attore in fondo è anche spettatore dei suoi compagni di palcoscenico), pubblico della fede che li lega a quella specifica processione, e sono pubblico delle altre manifestazioni fisicamente organizzate dagli altri gruppi. Elemento costante che ho avuto modo di riscontrare negli organizzatori è una profonda fede e rispetto della sfera sacra unita, in certi casi, al quel concetto di visibilità cui accennavo pocanzi, in altri casi a una verace e tangibile umiltà. Uscendo dalle fila dei cortei processionali ci si imbatte in una gremita folla di persone che sono solo spettatori. Pubblico questo che si differenzia sotto tre aspetti: età, conoscenza degli eventi, provenienza[76] (del resto una società non è qualcosa di monolitico ma un insieme dinamico di livelli – economico, politico, sociale, culturale, estetico, ecc. – il cui funzionamento storico e i tempi di durata e trasformazione non sono paralleli né sempre uguali). L’età è un fattore che dà il primo input per “classificare” la tipologia di pubblico: ci sono bambini, adolescenti, adulti e anziani. Per i bambini l’aspetto prevalente è senz’altro quello ludico: necessità soddisfatta dall’allestimento fieristico della città piena di venditori di palloncini e noccioline, tipici di questo e qualche altro periodo. La seconda fascia è quella degli adolescenti a sua volta divisibile in due gruppi: credenti e non. I primi sono coinvolti nella Settimana Santa a partire dalla liturgia vissuta nelle rispettive Parrocchie d’appartenenza, i secondi trovano in questi giorni una diversa occasione di ritrovo fra amici, un motivo per far tardi la sera. Anche per me, da adolescente, la Settimana Santa oltre la Parrocchia era motivo di incontro e condivisione del gruppo in un modo differente dal quotidiano. Ci sono vere e proprie catene di giovani che camminano tra la folla tenendosi per mano per non disperdersi che probabilmente delle vare o della Real maestranza condividono poco. Ci sono poi i ragazzi i cui genitori sono impegnati nelle processioni e allora lì nasce un ulteriore modo di essere coinvolti in questi sette giorni. Lo stesso discorso vale per gli adulti per cui si aggiunge in parte un desiderio di “mostrarsi”, di mettere in mostra la propria persona, la propria agiatezza, cosa che è presente anche nella quotidianità ma che in questo contesto trova particolare risalto. Infine gli anziani: non a caso è il pubblico più intimamente coinvolto e credo che questo sia dovuto al loro essere memoria storica e vivente della città e quindi i più consapevoli di ciò che sta succedendo. Questa mia suddivisione è finalizzata a chiarire le diversità di pubblico e non a fare delle divisioni nette all’interno di esso: uno sguardo più ampio esula dall’età anagrafica e coinvolge la tipologia di vissuto e cultura del singolo. A questo si unisce una conoscenza o meno degli eventi, conoscenza della storia di essi, di ciò che ha dato loro origine e la provenienza delle persone stesse poiché un turista che si reca a Caltanissetta per “vedere” la Settimana Santa avrà un certo tipo di approccio, conoscenze dell’evento, aspettative. Tutti elementi distintivi in genere di un pubblico che va a vedere uno spettacolo. Conoscere ciò che sto per vivere mi può dare determinati input, così come l’ignoranza di ciò che mi accingo a vedere me ne può dare altri: i primi probabilmente saranno di tipo più cognitivo e razionale, i secondi toccheranno la sfera emotiva. Ciascuna persona si accosta quindi con molteplici sfaccettature diverse per ognuno che condizioneranno inevitabilmente la fruizione/partecipazione ai riti nisseni.

In questo contesto si aggiungono gli esperti, gli storici, i quali mettono a disposizione il proprio sapere, di solito commentando le immagini trasmesse in diretta dalle emittenti locali, spiegando ciascuno secondo la propria specifica conoscenza (storica o artistica) a cosa si stia assistendo. Elemento questo che si cerca di rafforzare con iniziative di vario genere: dalle mostre a tema (mostra fotografica dei Capitani, mostra dei vestiari, mostra fotografica sulla storia della Real Maestranza, sui fogliamara e sul Cristo Nero, esposizione delle Varicedde, ecc) agli incontri in piazza con i maestri artigiani che interagiscono con i bambini mostrando loro i mestieri più antichi. Esperienze di questo tipo contribuiscono a creare o rafforzare ove presente la memoria e la conoscenza storica e sociale della città ed esplicano, a volte inconsapevolmente, il significato del rito in sé e dei riti specifici che tutta la città rivive ogni anno.

Tutte queste persone sono le diverse componenti della società dalla quale e per la quale questi riti sono nati e continuano ad evolversi. Victor Turner scrive:”[…] riti, drammi e altri generi performativi sono spesso orchestrazioni di media, non espressione in un unico medium.[…] Lo <> messaggio in media diversi è in realtà una serie di messaggi che variano leggermente l’uno dall’altro, poiché ogni medium aggiunge il proprio messaggio generico al messaggio che veicola. Il risultato è qualcosa di simile a una stanza degli specchi – specchi magici, ognuno dei quali, oltre a riflettere, interpreta le immagini che gli giungono da uno specchio all’altro. […] Il loro pieno significato emerge dall’unione di soggetto, attori e pubblico in un dato momento del processo sociale in atto in un gruppo”[77]. Le manifestazioni della Settimana Santa sono anche una forma di visione della società nissena su un doppio spazio temporale: il suo essere adesso e il suo essere stata prima. I cittadini, divisi tra fede e divertimento (ove per divertimento intendo occasioni diverse dalla routine quotidiana), sono lo specchio “deformato” della Caltanissetta delle zolfare: in loro si rispecchia quello che è il vivere attuale e si intravede quella che era la fede profonda, scevra di ogni belletto che, inevitabilmente, ha arricchito e modificato nei secoli la forma dei riti pasquali, in parte scristianizzandoli nel renderli “attuali” assecondando un sempre crescente bisogno di forma oltre che di sostanza.

Componente estetica

“Che abbia un fine sociale o personale,il rito necessita di una partecipazione emotiva profonda. Per questo è necessaria una componente estetica che anche per questo si trasformasi adatta negli anni”
(E. Durkheim)

Tutto diventa fattore di aggregazione e fa lievitare un comune sentire verso queste manifestazioni laiche e sacre. A fare da ulteriore collante sono gli aspetti più coreografici presenti in questo contesto. Penso alle luminarie, ai manifesti, agli striscioni, ai giochi d’artificio, alle lenzuola sui balconi quando passa il Cristo Nero, alle bancarelle, ai negozi aperti fino a tardi, alle rosticcerie aperte per tutta la notte. Penso agli aspetti coreografici delle processioni: suggestivi fumi di bengala, luci, fiori, sai bianchi e neri che uniformano i portatori di vare e varicedde. Penso in particolare ad un elemento nuovo, che solo in poche occasioni ha tanta visibilità: le bande cittadine. Per accompagnare tutti i gruppi sacri vengono ingaggiate da tutta la provincia nissena, ciascuna con la propria storia, con la propria passione. Ho avuto modo di incontrare il presidente della Banda principale di Caltanissetta, la banda “Albicocco”. Al di là del fatto che sia un lavoro retribuito, un notevole impegno le accomuna tutte: un conto è suonare per una processione, un altro è suonare per 24 ore filate continuamente in cammino, tenendo presente le temperature notturne dei mesi di Marzo e Aprile. La musica, come il cibo, è senz’altro elemento di aggregazione. Voglio soffermarmi un attimo di più sulla Banda “Albicocco” tenendola come esempio per comprendere il lavoro che tutte le bande sono chiamate a svolgere. Le musiche per bande sono Marce (la marcia è l’equivalente di un’opera però pensata per essere suonata in movimento). Esse sono sinfoniche, allegre o funebri e vengono scelte a seconda del momento. Le funebri sono suonate il Mercoledì, Giovedì e Venerdì sera e per la parte della Real Maestranza in cui i maestri sono vestiti di nero; alcuni titoli sono Ricordo triste (di S. Lombardo), Pianto eterno (di P. Quatrano), Marcia funebre nell’opera Jone di E. Putrella), Venerdì Santo e Tormento (entrambe del Maestro Orsomando). Le allegre intercalano le altre durante le parate; alcuni titoli: Ernani (di G. Verdi), Mosé (di G. Rossini), Aquila (di R. Wagner), l’Inno Pontificio (di V. Hallmayer), quest’ultimo suonato quando alla processione si uniscono i sacerdoti. Le sinfoniche vengono suonate durante le processioni in genere; alcuni brani scritti dal Maestro Costanza esclusivamente per questa banda sono Fulgida, Musicalità e Scherzo spagnolo. Pare che le bande siciliane e pugliesi siano le migliori in Italia per la capacità di lettura degli spartiti a impronta. Una caratteristica della banda musicale “Albicocco” è il “passo”. A guardarla dall’esterno sembra che la banda ondeggi. In realtà quello che fanno è tenere un passo in sincrono, un passo normale come quando si cammina. Il piede sinistro che tocca terra corrisponde ad ¼ del solfeggio e all’attacco della battuta. Il passo ha una doppia funzione: estetica per il colpo d’occhio che si ottiene e tecnica in quanto non si tratta altro che di un solfeggio necessario per andare tutti a tempo poiché manca un “direttore d’orchestra”. La banda “Albicocco” inoltre ha apportato delle modifiche alla struttura interna delle file, spostando a metà schieramento il sax bartocco utile a portare il ritmo alle prime file. Tornando al passo, le altre bande ondeggiano perché strisciano il piede che portano avanti a quello su cui passa il peso dandogli come un colpetto. La banda Albicocco invece se si osserva nei singoli elementi cammina semplicemente ottenendo lo stesso effetto estetico, più garbato, e unito a una più importante necessità. Il presidente della banda mi ha spiegato come il passo sia più importante della musica stessa: se si sbaglia una nota può anche andar bene, se si perde il passo è un disastro a catena. Quando suonano bambini molto piccoli, anche di soli quattro o cinque anni, non gli si raccomanda altro che di pensare al passo più che alla musica. Sono i componenti di questa banda che cantano a cappella il canto Lodi a Cristo quando viene intronizzato il crocifisso e anche in altri momenti della Settimana Santa. L’impegno partecipativo è notevole: le bande hanno il compito di scortare ognuna la propria vara o varicedda dall’inizio alla fine, il che significa dal mattino al mattino seguente. La banda Albicocco inoltre scorta il Capitano e la Real Maestranza in ogni loro uscita e il Mercoledì Santo è particolarmente impegnativo perché accompagna gli artigiani dalle sette del mattino fino al primo pomeriggio e subito dopo inizia ad accompagnare la propria varicedda. Gli impegni si accavallano di continuo e la presenza delle bande è significativa sotto diversi aspetti: estetico, aggregativo, emotivo, storico e culturale.

Terza fase dei riti: REINTEGRAZIONE

Il Lunedì dell’angelo

L’avvenuta reintegrazione

“Forse è questa la differenza critica fra teatro e rito – gli attori in scena devono sempre sembrare i personaggi che impersonano, se no vuol dire che hanno sbagliato; il ritualista non deve mai sembrare nient’altro da ciò che è […]. Il dramma teatrale concerne l’estrapolazione dell’individuo in ruoli e personalità estranee; il dramma rituale concerne le completa delimitazione, la totale definizione della persona.”
(V. Turner)

Per approfondire questo momento di reintegrazione faccio un passo indietro che mi porta ad una rappresentazione teatrale che si svolge per le vie della città in due giorni, della quale ho solo accennato nell’introduzione e che non ho analizzato finora in quanto esula da quelli che sono i riti e le cerimonie della Settimana Santa. È però un esempio utile per cogliere anche visivamente questo momento di reintegrazione. Mi riferisco alla rappresentazione della Scinnenza[78]. Essa è forse l’esempio più plateale di come la città divenga palcoscenico di una rappresentazione itinerante. E itinerante è un aggettivo che identifica una caratteristica delle processioni. La strada, come parte della città che è il tutto, è il luogo deputato per le processioni in quanto fatte dalla città per la città, per i cittadini. A differenza del teatro di strada, frutto di sperimentazione e ricerca, che mirava all’uso di spazi non canonici e destinato a un pubblico non necessariamente “cittadino”. Per la Scinnenza ci si ritrova a vedere sfilare cavalli, carri, bighe, lettighe, soldati e matrone romane, senatori, membri del sinedrio. Diversi punti della città diventano location naturali in cui allestire le spartane scenografie che immediatamente portano all’antico Impero Romano: ecco che la gradinata Silvio Pellico si trasforma nel Sinedrio e qualche scalino più giù nella casa di Cesare; un’altra, la gradinata Lo Piano, si avvolge dei colori tetri del Golgota; l’atrio della Biblioteca Scarabelli è ancora una volta protagonista perché ospita l’ultima cena di Gesù con gli Apostoli. Questo è dunque il caso limite o per lo meno più evidente. In realtà per tutta la Settimana Santa i luoghi interni della città, i suoi palazzi storici, Palazzo Moncada, Palazzo del Carmine, la Cattedrale, le vie che percorrono Caltanissetta dalla periferia al centro, le Chiese, la Biblioteca, tutto diventa luogo di accoglienza per qualcosa che non lo riguarda in senso stretto, che quotidianamente è relegato in altri luoghi, in altri ambiti. Palazzo del Carmine, dove ha sede il Municipio, ospita l’esposizione delle varicedde, il Teatro Margherita ospita la mostra dedicata ai Capitani della Real Maestranza e le cerimonie di passaggio delle consegne così come è sede per l’assegnazione di cariche onorifiche, Piazza Garibaldi diventa prima la base per una via Crucis con le vare poi un laboratorio all’aperto per far conoscere i Maestri artigiani e il loro lavoro, l’atrio della Biblioteca diventa Gerusalemme città dove Gesù viene acclamato dalla folla al Suo arrivo e dove una settimana dopo istituisce l’Eucarestia e infine trova la morte, la stessa Biblioteca ospita la mostra sul Cristo Nero e i fogliamara, le strade sono delle officine all’aperto dove alacremente vengono addobbati i gruppi sacri. Tutto cambia, tutto è sospeso dal “normale”, dal quotidiano, tutto assume nuovi significati temporanei. Tutto ciò finisce d’un tratto. Ho voluto fare riferimento al lunedì dell’Angelo come giorno simbolico a indicare la fine di tutto questo: è il giorno delle scampagnate in famiglia o con gli amici, la città viene quasi abbandonata. Tutto si è spento. Ciò che continua è solo il tempo liturgico, il tempo di Pasqua che culminerà dopo cinquanta giorni con la Pentecoste. Ma il tempo quotidiano torna ad essere tale e, a meno che non si sia cristiani praticanti, non c’è più alcun segno visibile del tempo in cui ci si trova. Con la riconsegna delle chiavi della città da parte del Capitano al Sindaco in presenza del Vescovo (la consegna avviene, per volontà del Vescovo, in Cattedrale dopo la Santa Messa di Resurrezione) Caltanissetta ha deposto le vesti della festa. Spariscono le bancarelle, i venditori ambulanti, i palloncini; le vare piccole e grandi sono tornate al loro posto solito, il Capitano torna alla sua bottega e riprende il lavoro giornaliero, così come tutti gli altri, dai maestri artigiani ai ladatori ai devoti di Gesù Nazareno. Le crisi di natura politica, culturale, sociale sono state tutte affrontate e in qualche modo risolte. La crisi più grande, la morte di Cristo, ha trovato risoluzione trascinando con sé tutto il resto. Cristo è risorto e con Lui tutto ritrova una dimensione ordinaria, quotidiana. Tutto è compiuto. I riti hanno trasformato, le cerimonie hanno confermato. Tutto ora volge alla quotidianità, anche se da qui a breve si inizierà ad organizzare la Settimana Santa dell’anno seguente.

[1] Non sono stati ritrovati documenti per una datazione certa sulla loro nascita. Sono sicuramente preesistenti al 1730, anno in cui sono citate in un notiziario.

[2] Vittorio Lampertico, Economia dei popoli e degli stati. Il lavoro, in Autori vari, La Real Maestranza negli ultimi 90 anni – Storia tradizione folklore, Nuova Sicilia Editrice, Caltanissetta, 1990, p. 34.

[3] Quest’uso è rimasto e la mustra viene fatta il giorno della processione della Real Maestranza.

[4] Rosanna Zaffuto Rovello, Caltanissetta Fertilissima Civitas 1510-1650, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 2002.

[5] Il patrono fino ad allora era stato il crocifisso del Cristo nero, chiamato per questo motivo “Signore della città”, che rimase però come co-patrono e che tutt’oggi è oggetto di profonda venerazione.

[6] Nel 1820 Caltanissetta si meriterà anche il titolo di “Fedelissima”.

[7] Giovanni Mulè Bertolo, Caltanissetta nei tempi che furono e nei tempi che sono, ristampa anastatica dell’edizione di Caltanissetta, 1906, Forni Editore, Bologna, 1970.

[8] Oltre alla Grazia Pasquale, il Capitano, durante tutto l’anno della sua carica, svolgeva anche un ruolo di “giudice ideota”, una sorta di giudice di pace dei nostri giorni. Ma di questo si parlerà in modo più approfondito più avanti.

[9] I motivi della cacciata dei gesuiti erano di ordine economico-politico (in quanto arrecavano un danno al Regno poiché accumulavano ingenti beni solo a proprio uso e vantaggio – beni che sarebbero poi stati requisiti per risollevare la classe dei medi e piccoli contadini) e di ordine religioso (l’Illuminismo aveva portato con sé un’ondata anticlericale; due erano le concezioni teologiche che si scontravano: quella giansenistica, rigida, moralista e antiromana; quella dei Gesuiti, aperta, accondiscendente e filoecclesiastica, considerata pertanto lassista) – cfr Michele Alesso, Il Giovedì Santo in Caltanissetta, Arnaldo Forni Editore, Caltanisssetta, Ristampa anastatica dell’edizione di Caltanissetta, 1903, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese, 1982.

[10] Fino all’epoca carolingia nella giornata del giovedì si celebravano due messe: una per la fine della Quaresima e l’altra per l’inizio del Triduo Pasquale. Successivamente si optò per l’unica messa in Coena Domini. Ancora oggi al mattino si celebra solo in Cattedrale la funzione per la benedizione degli oli santi (olio dei catecumeni, degli infermi e il crisma – che è olio misto a profumo usato nei sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Ordine); alla sera, in tutte le Chiese, si celebra la Messa in Coena Domini, memoriale dell’ultima cena di Cristo durante la quale si ripete il gesto di Gesù della lavanda dei piedi. Alla fine, l’Eucarestia viene riposta nel tabernacolo per tre giorni poiché non vi saranno altre celebrazioni eucaristiche fino alla Domenica di Resurrezione. Il termine sepolcri viene erroneamente usato in conseguenza di un’errata interpretazione di questo momento, intendendo il tabernacolo come il sepolcro in cui Cristo rimase per tre giorni prima di risorgere.

[11] Nel tardo pomeriggio del giovedì inizia la visita ai sepolcri dei quali occorre visitarne almeno tre (sempre comunque in numero dispari secondo un’antica tradizione), mentre anticamente non dovevano essere meno di sette.

[12] Michele Alesso, Il Giovedì Santo in Caltanissetta, Ristampa anastatica dell’edizione di Caltanissetta, 1903, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese, 1982, p. 12.

[13] L’origine di questo nome pare si debba alle rappresentazioni dei Misteri della Passione che si facevano in Sicilia, in epoca Medievale, all’interno di Chiese, in teatri costruiti a tale scopo o nelle piazze. Oppure una seconda ipotesi, a questa complementare, riprende il nome dalle rappresentazioni fatte nei venerdì di Marzo dalla Congregazione della Vergine Bambina le cui scene erano appunto chiamate “misteri”. Le barette rappresentavano i cinque misteri dolorosi della passione di Cristo. Questo nome è tutt’oggi in uso in diverse città d’Italia dove si svolgono processioni simili.

[14] Michele Alesso, Il Giovedì Santo in Caltanissetta, Ristampa anastatica dell’edizione di Caltanissetta, 1903, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese, 1982, p. 72.

[15] Le stime sui morti nell’incidente variano a seconda delle fonti: sessantaquattro o sessantacinque secondo diversi articoli giornalistici; sessantasei il numero riportato dall’Alesso.

[16] Così erano chiamati i bambini costretti a lavorare nelle miniere a causa della povertà delle loro famiglie che, in cambio di una gabella, li affidavano ai minatori.

[17] Ogni nuova vara e sua miglioria, da questo momento storico in poi, può essere considerata come conseguenza di una crisi fra i vari ceti spinti a competizione tra loro.

[18] Le notizie sono tratte da Michele Alesso, Il Giovedì Santo in Caltanissetta, Ristampa anastatica dell’edizione di Caltanissetta, 1903, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese, 1982. e Callari Salvatore, Le vare passione di Cristo e dell’uomo, Paruzzo editore, Caltanissetta, 2002.

[19] Le guantiere sono dei vassoi per dolci.

[20] I dati di costruzione e i nomi degli artisti sono stati tratti da Alessandro Maria Barrafranca, Le Varicedde – origini e sviluppo della processione del Mercoledì Santo, Paruzzo Editore, Caltanissetta, 2006. In Luca Paolillo, Mercoledì Santo a Caltanissetta, Tipolitografia Paruzzo, Caltanissetta, s.d., alcuni dati differiscono come segue: per i gruppi indicati con n. 3, 5, 8, 14 e 16 viene indicato come artista Salvatore Emma; per i gruppi n. 8 e 19, le date di costruzione sarebbero rispettivamente il 1924 e il 1949.

[21] Raccoglitori di erbe selvatiche amare. Era un mestiere con cui “ci si campava la famiglia” come racconta Michele Bellomo, presidente in carica dell’Associazione dei Fogliamara. Dopo aver raccolto le erbe, le stringevano in mazzetti e le andavano a vendere al mercato. Oggi il lavoro non esiste più, ma è rimasta la categoria i cui appartenenti, per discendenza, sono 96. Gli arnesi usati dai fogliamari erano: a fanci (la falce) per la raccolta di cicuriedda, giri, finucchiddi ( cicoria, biete e finocchio selvatico); a zappudda per i carduna amari o spinusi (cardi amari o spinosi); a rocca: rudimentale, una canna di bambù spezzata nel mezzo con un canovaccio a fare da cuscinetto, usata come pinza per la raccolta dei cacucciuledda spinusi (carciofi spinosi). Quest’ultimo è un esempio di come i fogliamari per necessità di sopravvivenza si inventassero gli arnesi a loro necessari a seconda del tipo di erba da raccogliere. Infine, u cutidduzzu: ogni fogliamari lo aveva sempre con se, era più che un arnese da lavoro, egli lo usava come arnese personale per mangiare, per tagliare il pane e per ogni uso cui fosse adatto ma non come arma. Gli utensili tramandati e conservati dai discendenti come reliquie sono rimasti intatti e ancora sporchi di terra.

[22] Proprio negli anni del ritrovamento, Caltanissetta viveva il suo balzo demografico e nel 1340 veniva considerata città.

[23] In merito, nuovi studi e la rilettura dei documenti mette in dubbio la veridicità di questa storia che inizia ad essere accostata più ad una “leggenda”. Si rimanda alla lettura di Michele Santagati, Un miracolo debole, Paruzzo Editore, Caltanissetta, 2001, con attenzione particolare alla prefazione allo stesso di Rosanna Zaffuto Rovello.

[24] La parola “Pasqua” deriva dall’ebraico Pesach che significa “passare oltre” in riferimento a quanto narrato nel libro dell’Esodo sulla liberazione degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto. La Decima piaga lanciata sull’Egitto da Dio per mano di Mosè fece infatti morire tutti i primogeniti salvo quelli dentro le case sulle cui porte era stato cosparso il sangue di un agnello: “Il Signore passerà per colpire l’Egitto, vedrà il sangue sull’architrave e sugli stipiti: allora il Signore passerà oltre la porta e non permetterà allo sterminatore di entrare nella vostra casa per colpire. Voi osserverete questo comando come un rito fissato per te e per i tuoi figli per sempre. Quando poi sarete entrati nel Paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito. Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case” (Esodo, 12, 23-27). La Pasqua ebraica è infatti una Pasqua di liberazione. Quella Cristiana è di Resurrezione e il significato della parola è cambiato in “passaggio”.

[25] “Ordinario” nel senso liturgico di questo temine che può essere inteso come un tempo di “quotidianità liturgica” all’interno del quale non si celebrano feste.

[26] In principio colpi di moschetto sparati in aria poi sostituiti con fuochi d’artificio.

[27] Si intende la Chiesa di Sant’Agata al Collegio (ex-sede dei Padri gesuiti), comunemente chiamata “Sant’Agata” oppure “Collegio”.

[28] Si tratta della Biblioteca Scarabelli, adiacente all’ex sede del Convento dei Frati Gesuiti. La biblioteca è variamente e storicamente protagonista in questi giorni.

[29] Si intende il sabato mattina prima della Domenica delle Palme.

[30] La forma della barca per il basamento negli anni è variata. Nel secolo scorso la statua di Gesù era posta su una struttura a forma di “monte” o “cubo” sempre adornato di fiori.

[31] Si intende l’uscita della statua fuori dalla sagrestia della Chiesa di Sant’Agata al Collegio per il suo allestimento.

[32] Questo diventa occasione e ulteriore spunto per esercizi spirituali di preparazione alla Pasqua.

[33] Uno dei fiori di campo da sempre usato è il fiore chiamato abbarcu. È probabile che l’idea della forma di “barca” data alla struttura portante la statua del Nazareno sia nata da una storpiatura del nome di questo fiore. Essendo cioè adornata in prevalenza dall’abbarcu iniziò a essere chiamata così fino a generare l’idea di creare una struttura a forma di barca. Un’altra ipotesi è quella di aver preso dai Vangeli l’immagine di Gesù “pescatore di anime”. Trattandosi però di una devozione nata presso contadini, gente quindi semplice, ritengo sia più probabile la prima di queste due versioni. La seconda mi sembra essere una lettura un po’ forzata ed “elaborata”.

[34] Le parole dell’Ing. Salvatore Giammusso conducono la mente a quello che è stato ed è un punto nodale della riflessione antropologica. Mi riferisco all’utopica prospettiva nutrita da un certo tipo di antropologo di trovare ancora etnie completamente vergini da poter osservare e studiare, luoghi non “contaminati” dal turismo né dal semplice e naturale trascorrere del tempo. In tal senso è molto chiara e lucida la riflessione proposta da Giovanni Azzaroni secondo la quale “..la ricerca antropologica […] non può pretendere che nulla muti mentre tutto cambia, l’immobilità, il sogno dell’antropologo che vorrebbe congelare il passato per registrarlo nel presente..” (Postfazione in Matteo Casari, a cura di, La Settimana Santa di Castelsardo, Bologna, CLUEB, 2008, pag. 188). E ancora: “Rifuggo dal sogno dell’antropologo che vorrebbe che nulla si trasformasse,che tutto rimanesse sempre identico a come era nel giorno della creazione. Giungere in un villaggio e trovare i neri che danzano nudi accompagnati da assordanti musiche di tamburi, fotografare, riprendere, registrare, magari rivolgere qualche parola agli anziani, trattenersi per qualche giorno e poi andarsene felici per aver visto e studiato i selvaggi” (Prefazione in Giovanni Azzaroni, a cura di, Le realtà del mito due, Bologna, CLUEB, 2008, pag 21) – Il cambiamento in questo caso osservato è sicuramente un segno tangibile del mutare storico della società nissena: cambiamenti sociali ed economici irreversibili che non possono non verificarsi. Se questa processione è nata “contadina” oggi tra gli associati vi sono uomini che fanno i più svariati mestieri: qualcuno si occupa ancora dei propri campi ma in generale non è più l’unica attività né quella principale. Il cambiamento sociale degli uomini che fanno vivere questa tradizione non ha però influito sul senso profondo della stessa. Le motivazioni di fede e di moralità sono tuttora pregnanti e fondanti. Inoltre, si vuole continuare a mantenere un segno di questa tradizione di contadini e le parole dell’Ing. Giammusso sono esaurienti a riguardo: “nel nuovo è un segno della tradizione”. Cambiamenti dettati da esigenze concrete che sono diverse da quelle di mezzo secolo fa: ma proprio questo continua a far essere questa processione specchio del “mondo” che la sostiene e cerca di difenderla da altri cambiamenti che la potrebbero snaturare (un mancato ricambio generazionale dell’Associazione, per esempio, potrebbe portare alla fine della processione o alla sua organizzazione per interessi di carattere economico o comunque non coerenti con la devozione che l’ha fatta nascere). Infine, vi è anche una conseguenza naturale di carattere estetico che negli anni è progredita visibilmente: basta confrontare alcune foto di anni diversi del lavoro di allestimento. Fattore estetico dunque come conseguenza (gradita) e non come causa scatenante di una variazione della tradizione.

[35] Si intende l’acronimo “WGN”, scritto con i fiori, che significa “W Gesù Nazareno”.

[36] Mi è stato raccontato dalla sig.ra Concetta, moglie del Sig. Giuseppe Falduzza, uno dei tre soci più anziani che tuttora si reca ogni giorno nella propria campagna per coltivarla e che quindi ha l’esperienza di tutta una vita vissuta in campagna e per l’Associazione “Gesù Nazareno” che, non essendo del tutto soddisfatto dei rami d’ulivo che erano stati raccolti (perché i soci più giovani avevano preso i rami più bassi mentre invece i più belli sono quelli in alto) è tornato tra gli ulivi (quando il lavoro era stato compiuto) raccogliendo personalmente i rami migliori per l’addobbo della barca.

[37] Statuto dell’Associazione Real Maestranza Città di Caltanissetta – ONLUS, art 2 (scopi).

[38] Dal punto di vista della liturgia, il “protagonista” di questo giorno, così come degli altri, è Gesù. Ma nello specifico, il Mercoledì Santo, a differenza degli altri giorni, vede uscire in processione, liturgica e non devozionale, il Santissimo Sacramento. Le processioni devozionali sono quelle in cui è la statua di un santo o di Gesù stesso ad essere portata in corteo. Ma quando non è una statua, bensì il corpo di Cristo ad essere condotto in processione, questa è liturgica. La differenza è essenziale e fondante.

[39] In base all’usanza della città di Caltanissetta, l’immagine immediata nella mia mente nell’assistere a tutti i preparativi in casa del Capitano durante questa mattina, è stata quella del giorno dello sposo che si prepara alle nozze. Ne ho ritrovato tutti gli elementi che caratterizzano quella mattina: lo sposo cura il proprio aspetto facendosi pettinare e rasare, poi indossa l’abito nuziale ed esce dalla propria stanza per mostrarsi a parenti, amici e vicini di casa che intanto sono arrivati e l’attendono nella sala da pranzo o in salotto. Per loro viene allestito un piccolo buffet. Il capitano, come una sposo, prepara anche fisicamente la propria persona a quello che sarà uno dei giorni più importanti e indimenticabili della sua vita. L’abito è esso stesso il segno più evidente del tempo diverso da quello quotidiano in cui si trovano. A fare da contorno è tutto il resto: l’atmosfera di festa, la presenza nella propria abitazione di molte persone anch’esse vestite a festa, il cibo, l’attesa. Tutto questo serve a preparare anche “mentalmente” il Capitano e lo sposo: una sorta di ouverture durante la quale si prende confidenza con la situazione nuova e unica e si comincia a realizzare ciò che sta succedendo e che sta per succedere: le nozze o il Capitanato.

[40] Inizialmente la coulotte veniva indossata sotto il pantalone. L’uso cambia nel ‘700 quando essa stessa diventa pantalone. È lunga fino alle ginocchia dov’è fermata da due bottoni. Restano così visibili per intero le calze.

[41] Prima questo giro veniva fatto a piedi ed era sicuramente più faticoso, soprattutto per la banda musicale, perché si andava da un capo all’altro della città seguendo, come ora, non un ordine logico-geografico bensì l’ordine di grado delle cariche da andare a prendere.

[42] L’uso di liberare un prigioniero per la Pasqua lo troviamo nei Vangeli. In Giovanni 18, 39; in Marco 15,6; in Matteo 27, 15. Questa tradizione ebraica è in memoria della liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Per la Pasqua in cui Cristo fu crocifisso, era stato chiesto al popolo, secondo quanto riportato dai vangeli, se avesse voluto liberato Gesù o Barabba.

[43] A Caltanissetta questa tradizione non è più in vigore anche se negli ultimi anni l’Associazione della Real Maestranza ha cercato di farla tornare in auge. La proposta era stata di far coincidere l’uscita di un detenuto di minor pena con il giorno del Mercoledì Santo. In questo caso non sarebbe più stato il Capitano a liberare il prigioniero ma sempre e comunque lo Stato italiano: l’idea era solo di far coincidere la liberazione (ottenuta a prescindere per buona condotta o indulto o motivazioni affini) col giorno del Capitano a voler ricordare in modo più forte l’antico potere di questi. Ma pare siano stati gli stessi detenuti a rifiutarsi in quanto avrebbero comunque ottenuto la stessa cosa ma senza tanta “pubblicità” su di loro. In Spagna invece, nella città di Malaga, la medesima tradizione è ancora vigente per opera della Confraternita Hermandad de nuestro Padre Jesus “el rico”. Vedi sito della Confraternita spagnola http://www.cofradiaelrico.com.

[44] Durante la mia seppur breve permanenza nei giorni precedenti la Settimana Santa, ho assistito ad alcuni di questi impegni ufficiali, ad esempio presso le scuole per far conoscere la Real Maestranza ai più giovani, e più di una volta il Maestro Giuseppe Giordano veniva riconosciuto perché visto in tv o si capiva che quella era una delegazione in borghese della Real Maestranza per la medesima ragione. Questo probabilmente avviene con maggiore facilità quando, come quest’anno, il Maestro ha una fisionomia particolare: e il Maestro Giordano di certo non passa inosservato e sulla sua importante presenza, durante gli incontri ufficiali, si è più volte scherzato.

[45] Nella Metafisica (v. 7, 1017a 35 sgg; IX 1-9) Aristotele dice che “un ente è <> quando possiede la propria perfezione o determinazione rispetto a ciò che è <> quando ne è ancora privo. Benché cronologicamente ciò che è in potenza preceda ciò che è in atto, dal punto di vista della perfezione l’atto ha il primato sulla potenza, perché è ragion d’essere e finalità rispetto a ciò che è ancora imperfetto e in divenire”. Il Capitano è “potenzialmente” tale sin dall’elezione, ma tale sua carica raggiunge il “perfezionamento” con l’atto della vestizione e ancor più con la consegna dei poteri politici e dei simboli religiosi.

[46] Anche se è più giusto precisare che totale non sarà mai a meno che tutta la cittadinanza non vada alla processione, cosa questa che di certo non accade a differenza di quanto succede in un villaggio in cui vengono fatti dei riti fondanti per il villaggio stesso. Differenza che sta nella “scelta”. Le processioni affrontate in questo studio hanno una doppia valenza a seconda che una persona le faccia o vada a vederle. Gli uomini che, prendendo ad esempio la Real Maestranza, danno fisicamente vita alla processione lo fanno non perché sia un dovere imposto dall’esterno, bensì perché è un dovere che ciascuno di loro sceglie per sé. Non è un controsenso l’uso concomitante di questi due termini (scelta e dovere) nell’analisi di quella che è l’anima della Real Maestranza. A differenza di gran parte del pubblico che si trova schierato in Piazza, in questa processione come per altre, perché quella è anche un’occasione di svago dal tempo quotidiano, gli uomini che vivono la processione dall’interno la vivono come una cosa importante e seria la quale, pur essendo qualcosa di extra-ordinario, non è assimilata allo svago, né al passatempo. È un impegno non ordinario che per una Settimana vede molti uomini vivere una transizione, un intimo momento all’interno e per “causa” della transizione Pasquale.

[47] Durante il colloquio con Mons. Campione non mi è stato possibile registrare audio o video ma solo prendere appunti cartacei, pertanto le informazioni da lui fornitemi sono qui riportate non secondo le sue testuali parole, bensì tenendo presente il contenuto del suo discorso nel pieno rispetto di esso.

[48] Questa notizia vale per quanto riguarda il crocifisso. In realtà i miracoli sono stati attribuiti anche all’intercessione di Padre Angelico Lipani, il sacerdote che si prodigò per la costruzione del santuario del Cristo Nero, per il quale il processo di beatificazione c’è stato e si è concluso nel 2004.

[49] Di fatto esiste anche l’Associazione Giovedì Santo il cui presidente è stato restio a fornire informazioni riguardo ad essa e non è mai stato presente ai vari incontri cui ho assistito.

[50] In realtà questo differente comportamento e nella partecipazione l’ho riscontrata anche in alcune figure sacerdotali e nella folla presente.

[51] Allegato “M” al n° 64742 di repertorio e 14348 di raccolta – Statuto costitutivo dell’”Associazione Real Maestranza di Caltanissetta – ONLUS”.

[52] Stefano Gallo, Real Maestranza, nuova onorificenza – Vittorio Sgarbi è il console onorario, in Giornale di Sicilia, 01 Aprile 2009.

[53] Stefano Gallo, Onorificenza a Sgarbi, ma il Vescovo non ci sta, in Giornale di Sicilia, 02 Aprile 2009.

[54] Luigi Scivoli, Sgarbi console, il Vescovo: <>, in La Sicilia, 02 Aprile 2009.

[55] La spartenza (letteralmente “separazione”) è l’atto finale delle processioni delle varicedde e delle vare. In particolare per queste ultime essa ha assunto, sin dagli inizi della processione,un fascino tuttora indimenticato. Spartenza significa separazione, infatti anticamente le vare venivano conservate in diverse chiese della città, ed al termine della processione ogni gruppo si separava dall’altro per andare nel luogo dove doveva essere custodito. Non è più un giorno di festa, in pochi attimi la piazza rimane muta, la città ormai dorme, prende vita il triste lutto del Venerdì Santo.

Da quando le vare sono tutte custodite nei locali adiacenti la Chiesa di San Pio X la spartenza ha perso il suo significato d’essere perché i gruppi non si separano più gli uni dagli altri ma tutti si dirigono verso lo stesso luogo.

Da qualche anno inoltre la spartenza non si fa più in questo modo anche in un altro senso. Le vare non corrono più superandosi tra loro fino a scomparire così come al pomeriggio erano “apparse”. Questo per due motivi: per evitare che esse subiscano dei danni in seguito ai restauri che tutte hanno fatto e, dal 2009, a causa dei lavori di rifacimento del manto stradale di Piazza Garibaldi poiché essa è stata tutta rialzata lasciando un piccolo scivolo per il passaggio, lento e ordinato, di tutti i gruppi che uno dietro l’altro si accodano su Corso Vittorio Emanuele e da lì vanno dove saranno custodite. Una tradizione secolare cambiata per restauri, per adattamento a un tempo nuovo: motivazioni comprensibili e rispettabili ma che un pò d’amarezza la lasciano se non altro per una questione di legame all’antico appuntamento della spartenza. L’unica spartenza ravvisabile allo stato attuale è quella delle vare dalla gente e non più delle vare fra loro stesse.

[56] Il mangiare insieme e l’offrire da bere e da mangiare, cosa che fa anche il Capitano, rientra nei riti di aggregazione. Così come lo scambio di doni e di visite già visti in riferimento alla Real Maestranza.

[57] Stefano de Matteis, Introduzione all’edizione italiana, in Victor Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, Bologna, 1993, pag 17.

[58] Arnold Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1981.

[59] V. cap. 2.4.4.

[60] Qualcuno ha ricevuto la carica in modo indipendente, prima di essere eletto Capitano.

[61] Allo spadino originale del ‘700 è stata tagliata la punta per motivi di sicurezza in occasione della visita della Real Maestranza al Vaticano.

[62] La gerarchia dell’E.I. è la seguente: Generale – Colonnello (Tenente Colonnello, Maggiore) – Capitano, Tenente (Sottotenente) – 1° Maresciallo luogotenente, Maresciallo – Sergente Maggiore Capo (Sergente Maggiore, Sergente) – Caporale Maggiore Capo Scelto (Caporale Maggiore Capo, Caporale Maggiore Scelto), 1° Caporale Maggiore, caporale Maggiore, Caporale, Soldato.

[63] Il rapporto tra struttura e antistruttura è di natura dialettica conflittuale e non di contrasto poiché l’una negando la legittimità dell’altra la conferma e le dà origine.

[64] L’art. 50, comma 12 del D.Lgs. 267/2000 definisce la fascia tricolore come “distintivo del Sindaco, unitamente allo stemma della Repubblica Italiana e lo stemma del Comune” – Notizia tratta da http://mazzapegolo.blogspot.com/2007/11/lutilizzo-della-fascia-tricolore-da.html. Inoltre: “La Fascia Tricolore è indossata dal sindaco in tutte quelle manifestazioni civili e religiose dove sia esposto anche il Gonfalone” – Notizia tratta da http://www.articolo19.it/fascia.html.

[65] Il portabandiera della categoria capitanale è stato nel 2009 Calogero Andolina, 02/01/1957, fabbro dal 1970.

[66] L’alabardiere della categoria capitanale per il 2009 è stato Tommaso Marco Lentini, 02/05/1982, fabbro da circa otto anni

[67] I colori sono quelli della bandiera cittadina.

[68] Si intende la processione del Cristo Nero.

[69] In riferimento alla sola Real Maestranza si dibatte da qualche anno se fare entrare o no le donne restringendo e motivando l’ammissione a quelle categorie artigianali di cui le donne fanno ormai parte: panificatori e barbieri. Anche questo sarebbe un cambiamento radicale dettato da un mutamento storico e sociale, nello specifico, della figura della donna (che ormai è parte anche di ogni divisione delle forze dell’ordine).

[70]In Victor Turner, Il processo rituale, Editrice Morcelliana, Brescia 2001, pag 113, leggiamo: “È come se vi fossero qui due ‘modelli’ principali per i rapporti tra gli esseri umani […]. Il primo è quello della società come sistema strutturato […]. Il secondo, che emerge in modo riconoscibile nel periodo liminale, è quello della società come comitatus, comunità o anche comunione non strutturata e relativamente indifferenziata di individui uguali che si sottomettono insieme all’autorità generale dei majores rituali”. E ancora, pag 142 e segg: “Per me la communitas emerge là dove non è la struttura sociale. […]La communitas infatti ha un carattere esistenziale; implica l’uomo tutto intero, nel suo rapporto con altri uomini, integralmente considerati. La struttura invece ha carattere conoscitivo. […] La communitas comprende anche un aspetto di potenzialità; spesso si coniuga al congiuntivo. I rapporti tra gli esseri totali generano simboli, metafore e confronti; l’arte e la religione più che le strutture legali e politiche, ne sono il prodotto. […]La communitas irrompe attraverso gli interstizi della struttura, nella liminalità […] Quasi dappertutto la si considera ‘sacra’ perché viola o annulla le norme che governano rapporti strutturali e istituzionalizzati. […] Io sono propenso a ritenere che la communitas […] è […] il prodotto di facoltà specificatamente umane, che comprendono la razionalità, la volizione e la memoria e che si sviluppano con l’esperienza di vita nella società. […] Nei rites de passage gli uomini liberati dalla struttura entrano nella communitas soltanto per tornare alla struttura rivitalizzati dall’esperienza della communitas”.

[71] La communitas è quella dei ladatori più che quella dei fogliamara poiché fogliamaro lo si è per discendenza, ladatore si diventa attraverso il percorso descritto.

[72] Giuseppe Lipani, Simana Santa a San Cataldo – Liminalità e antistruttura nelle festività pasquali, Centro studi Cammarata e Edizioni Lussografica, Caltanissetta, pag 50.

[73] In effetti si dovrebbe dire dei ladatori: c’è una diffusa confusione tra i due termini laddove il ladatore è diventato per estensione il fogliamaro poiché per fogliamara si intendono soltanto i novantasei ladatori e non anche i discendenti non ammessi a questo gruppo e pur tuttavia fogliamara per “diritto di nascita”.

[74] In http://www.cuoreinsicilia.it/t_articolo.asp?articolo=5 si trova il seguente articolo sulla tragedia del 12 Novembre 1881: “Sono le sei e un quarto del mattino, gli operai del turno mattutino sono appena scesi e all’improvviso dalle viscere della zolfara, si ode un boato tremendo. È scoppiato del grisou, il micidiale gas delle miniere, e l’esplosione nella miniera Gessolungo in contrada Juncio a Caltanissetta segnerà una delle più gravi tragedie nella storia dello zolfo in Sicilia. Ben 120 operai rimasero intrappolati all’interno della miniera: 49 morirono all’istante e 16 nei giorni seguenti per le terribili ustioni e ferite riportate quella mattina. In 55, invece, scamparono miracolosamente al disastro. Tra le 65 vittime v’erano anche nove bambini in tenera età: alcuni di quei carusi che venivano utilizzati normalmente nelle miniere per trasportare all’esterno il materiale estratto. Gli effetti dell’esplosione furono così devastanti e terribili che gli operai deceduti non poterono essere neppure trasportati al cimitero cittadino e, per ordine delle autorità del tempo vennero seppelliti in un piccolo appezzamento di terra vicino alla miniera […]. ”

[75] A riguardo Alberto Nicolino ha realizzato un interessantissima ed emozionante ricerca volta alla raccolta di notizie per il suo spettacolo teatrale “Viaggio al centro della terra”. Si tratta di: Alberto Nicolino, Stirru/Racconti di zolfo, film documentario, parte 1°, s.e., s.d., con DVD, che raccoglie i racconti degli ex minatori nisseni, i loro canti, le foto delle miniere e brani della “letteratura dello zolfo”.

[76] Pier Giorgio Giacché parla invece di quelli che sono i “regali” che lo spettatore fa a chi sta per offrirgli uno spettacolo. Essi sono: l’attesa, l’interesse, la relazione. Anche dall’analisi dei livelli di presenza, e compresenza, di questi elementi (che sono comunque conseguenza degli aspetti che mi accingo a valutare) potremmo delineare diverse tipologie di pubblico (Piergiorgio Giacché, Lo spettatore partecipante – Contributi per un’antropologia del teatro, Edizioni Angelo Guarini e Associati s.r.l., Milano, 1991). Marco De Marinis parla invece di presupposti, processi e sottoprocessi, risultato/i dell’atto ricettivo (Marco De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma, 1999).

[77] Victor Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, Bologna, 1993, pagg 78-79.

[78] Il testo usato per la rappresentazione della Scinnenza è variato nei secoli: dal 1850 si usò il testo di Filippo Orioles, Il riscatto di Adamo nella morte di Gesù Cristo, dal 1960 si passò al testo in prosa di Joiosa Jonica Sulla strada del Golgota; infine dal 2001, l’Associazione A.Te.Pa. usa un testo in prosa italiana scritta dallo stesso regista dell’Associazione, Sergio Forzato. Essa esula dai riti della Settimana Santa avendo con loro in comune solo l’essere in ambito performativo, nello specifico teatrale, che produce un metacommento di una storia che viene raccontata (in seguito a prove, sulla base di un copione), ma non è una processione, né un rito, né una cerimonia: per queste ultime non esistono prove, la loro esecuzione è performance e prova generale al tempo stesso, il rituale da seguire non è un copione da recitare ma una forma prescritta per l’azione pubblica del rito (Turner sottolinea l’etimologia della parola “liturgia” composta dai termini greci λεός ed έργον che significano “popolo” e “lavoro”). I protagonisti della Scinnenza sono attori che si trovano a impersonare un ruolo: interpretare non è trasformarsi. L’attore gioca e sceglie di giocare in alternativa al tempo lavorativo: siamo in una zona liminoide; il rito trasforma ed appartiene alla sfera del lavoro: esso è liminale. Schechner partiva dall’idea che le performance in generale fossero una sorta di comportamento comunicativo. Che una certa performance sia identificata come teatro piuttosto che come rituale dipende dal contesto e dalla funzione che essa svolge. Le caratteristiche di un rito sono: un tempo simbolico, i performer che sono soggetti a un cambiamento permanente o temporaneo, il pubblico che partecipa; il teatro ricade nell’ambito del divertimento per cui: non c’è un legame con qualcosa di “divino”, di “altro” dai presenti, i performer sono coscienti di ciò che fanno, il pubblico è solo un osservatore che può essere chiamato poi a un giudizio critico.

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