L’imprevedibile sublime del Cimitero monumentale Angeli – Leandro Janni

UNA SERA D’INVERNO

La finestra è ornata della neve caduta,
a lungo rintocca la campana del vespro,
la casa è ben rifornita,
la tavola per molti è già imbandita.

Vagando alcuni, ed ora altri,
giungono alla porta per oscuri sentieri.
I fiori dorati dell’albero delle grazie
si coprono della gelida rugiada terrena.

Il vagabondo entra in silenzio;
il dolore ha mutato in pietra la soglia.
Là è posato, mostrando il suo limpido splendore,
sopra la tavola il pane e il vino.

Georg Trakl

Dentro ai grigi condomini, malgrado tutto, scorre il tempo delle nostre vite. Tra effimere, luminescenti immagini e opachi oggetti quotidiani. Anonima, ripetitiva, straniante è la città contemporanea. Lo spazio, il non-luogo nel quale inesorabilmente abitiamo. Lo spazio, il non-luogo nel quale spendiamo la nostra breve, preziosa esistenza. Un’unica, grande periferia: un assoluto “dappertutto”, senza limiti e senza confini, dove viviamo come stranieri, come radicati nell’assenza di luogo.
Ma qui, da noi, nell’Isola, nella Sicilia più interna e più integra, è ancora possibile ritrovare luoghi, storie, paesaggi; lo spazio e il tempo per una riflessione, un ricordo. Persino la natura è possibile ritrovare. Magari, per caso.
Nel cuore dell’Isola c’è un territorio, un paesaggio plasmato, connotato dalla poderosa sequenza di monte Sabucina, monte Capodarso, il tavolato di Enna. In basso, il lento, sinuoso scorrere del fiume Imera-Salso. E poi, come arroccato, abbarbicato a ciò che resta del rude castello di Pietrarossa, il Cimitero Angeli di Caltanissetta, sito su uno straordinario, argilloso piano inclinato. Spazio disegnato, concluso, definito da alte e protettive mura in pietra. Città analoga, giardino. Luogo quasi familiare, rassicurante, eppure inevitabilmente aperto, esposto al territorio circostante, alla natura.
Ed è proprio questa ambivalenza, questa duplice peculiarità fisica, estetica, questo risultare luogo, spazio costruito, pittoresca rappresentazione architettonica e insieme paesaggio sublime, che ci colpisce del Cimitero Angeli di Caltanissetta. Percorrendo i suoi viali, osservando le neoclassiche, seducenti cappelle gentilizie, le umanissime sculture, le epigrafi, i ritratti fotografici, lasciandosi come ipnotizzare dai ripetuti, geometrici loculi quadrati, è come se, di tanto in tanto, il nostro sguardo deviasse, sfuggisse verso l’esterno, verso la natura: infinita, selvatica, cosmica. Ignota.
Il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), evidenziando un bello pittoresco e un bello sublime, distingue due giudizi che dipendono da due tipi di atteggiamento dell’uomo nei confronti della realtà. Su di essi e sulla loro relazione dialettica fonda la Critica del giudizio.
Prima di essere assunto dal filosofo tedesco a categoria del bello, il concetto di pittoresco era stato posto dal pittore e teorico inglese Alexander Cozens (1717-1786), come fondamento di una poetica del paesaggio. Principio estetico fondamentale del pittoresco è – per Cozens – la varietà: in un luogo, in un paesaggio, alla presenza di cose varie – rocce, alberi, acque, case, animali, figure, nuvole – corrispondono diversi tipi di macchie. Ovviamente le macchie sono variabili in relazione al punto di vista, alla distanza, alla luce. Ciò che l’occhio e la mente colgono è dunque un contesto di macchie differenti, ma in relazione tra loro. La macchia corrispondente ad una roccia non muta soltanto col tipo di roccia, ma col suo essere vicina o lontana, illuminata o in penombra. L’interesse non consiste solo nel modo in cui si compie l’esperienza, ma anche nel modo con cui ci si accosta alla realtà: un sereno tramonto suscita un sentimento di calma; una bufera, invece, un sentimento di paura. Insomma, il processo dell’artista – secondo la poetica del pittoresco – va dalla sensazione visiva al sentimento. In questo sviluppo, in questa evoluzione dal fisico al morale l’artista è, in qualche modo, maestro, guida ai suoi contemporanei.
Ma la natura non è soltanto sorgente di sentimento. Induce anche a pensare. Vediamo, ma sappiamo che ciò che vediamo non è che un frammento della realtà: al di qua e al di là del frammento, infinita è l’estensione dello spazio e del tempo. Poderose e oscure le forze cosmiche che producono i fenomeni. Sconfiniamo col pensiero oltre il veduto e il visibile, nel dominio della memoria, delle intuizioni, del sogno. Ciò che vediamo, allora, perde ogni interesse; ciò che non vediamo – eppure immaginiamo possibile – s’impone e ci sgomenta con la sua infinità che ci dà l’angosciosa consapevolezza dei nostri limiti, della nostra finitezza. Questa realtà trascendentale è il sublime. Poetica dell’assoluto, il sublime, si contrappone al pittoresco, poetica del relativo.
“Nel secolo della ragione – ha scritto Giulio Carlo Argan – riapre il problema dell’irrazionale, che è poi il problema stesso dell’esistenza; ma soltanto dal punto di vista della ragione si può porre il problema di ciò che l’oltrepassa. E soltanto dopo avere riconosciuto nell’arte classica l’esempio della perfetta razionalità, si possono ravvisare in essa i segni dell’irrazionalità o della passione. Si ammira in Michelangiolo il genio ispirato, eroico, solitario, sublime: ma che altro è mai il trascendentalismo di Michelangiolo se non il superamento del classicismo inteso come equilibrio razionale di umanità e natura?”
La poetica del sublime esalta nell’arte classica l’espressione totale dell’esistenza e così apre il periodo che si chiamerà “neo-classico”. Ma, contemporaneamente affermando che l’arte detta classica non è affatto l’espressione di quell’equilibrio di umanità e natura, che si dice proprio del classicismo, di fatto distrugge il concetto di classicismo, e cioè il concetto dell’arte come rappresentazione della natura.
Se la poetica illuministica del pittoresco vede nell’artista l’individuo integrato nell’ambiente sociale e naturale, la poetica del sublime, invece, vede l’individuo che paga con l’angoscia della solitudine l’orgoglio del proprio isolamento. Le due poetiche comunque si integrano e nella loro contraddizione dialettica riflettono il grande problema del tempo, la difficoltà del rapporto tra individuo e collettività.
Nel complesso fenomeno-processo dell’arte moderna, che è tale proprio perché è fondamentalmente disgiunto dalla concezione classica dell’arte, la dialettica dei due termini muterà continuamente forma, ma rimarrà sostanzialmente immutata. La storia dell’arte moderna, dalla metà del Settecento ad oggi, è la storia spesso drammatica della ricerca, tra l’individuo e la collettività, di un rapporto che non dissolva l’individualità nella molteplicità infinita e omologante della collettività, e non la ponga al di fuori come estranea. O ribelle.
Nel Cimitero monumentale Angeli di Caltanissetta, in questo luogo familiare e sfuggente, ombroso e rilucente, labirintico, oltre al dolore della perdita, al lutto, può capitare di incontrare la bellezza, il mistero e la luce. L’imprevedibile sublime, oltre il “banale” di una grigia, sconfinata periferia.

[Leandro Janni]

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