Francesco Morillo

Ecco cosa scrisse di lui Giovanni Mulè Bertolo:

Ei nacque nella città di Naro il 13 giugno dell’anno 1816 e ricevette istruzione conforme allo stato di sua famiglia, della quale non sarò certamente io che rintraccerò l’antica origine e tesserò la storia, belando il panegirico. La nobiltà dello stipite e lo splendore del blasone non affascinano l’animo mio da farmi giudicare gli uomini a siffatta stregua: spiriti schizzinosi, come il mio, non ci tengono a certe velleità ridicole. Io considero l’individuo tale quale mi si presenta innanzi, cioè, co’ suoi vizî e con le sue virtù, e senza piegare addietro il collo per guardar su fino allo stipite della famiglia, ne vaglio gli uni e le altre e da imparziale dico il mio giudizio. Se il vanitas vanitatum del ravveduto Salamone si ebbe vera ed opportuna applicazione, lo fu nel caso de’ vantati blasoni e della iattanza del lustro degli antenati.
E sì che per il barone di Trabonella ce ne sarebbe d’avanzo! L’amore dello studio divenne in lui passione dominante della sua vita e con mano diurna e notturna lo vedevi a svolgere i libri della sua ricca e pregevole biblioteca. E questo è il motivo, per cui tornava caro a quanti lo avvicinassero, perché avea sempre pronta la parola su qualunque materia, che formasse oggetto di conversazione, ma senza vanità o stupido orgoglio.
La storia e le scienze sociali erano il vasto campo, in cui si die’ a spaziare sin dalla sua giovane età e non si ristette dal coltivarle sino allo estremo di sua vita. Sì, quantunque le immense sue possessioni e le sue
estese industrie richiedessero cure e sollecitudini incessanti, poté in lui, più che l’ingordigia de’ guadagni e delle ricchezze, l’amore del vero, del buono e del bello, e però a quelli volse le spalle, mentre al culto di questi tre nobilissimi sentimenti consacrò tutto se stesso. Merita lode o biasimo?
A sentir gl’impulsi del mio cuore vorrei dar tutta la lode a Francesco Morillo, convinto come sono che l’uomo deve badare più che alla vita del corpo a quella dello spirito, il cui pabolo sono appunto il vero, il buono ed il bello; ma se si presta orecchio ai dettami del secolo mercanteggiatore, dico che dovea, anche col sacrifizio della sua nobile passione, rubare al culto delle sue tre muse un tantin di tempo per dedicarlo al buon andamento della sua vasta amministrazione, che sarebbe bastato a vederne il marcio e a porvi efficace rimedio.
Ma fate che Giusti perori nell’aula della giustizia e smetta dall’amicizia di Erato, che Tullio detti versi
come Virgilio e dia le spalle alla tribuna, che Archimede contenda la palma a Teocrito e dia lo sgambetto ai calcoli… oh! allora io griderei al miracolo e la croce addosso al barone Trabonella.
Dallo studio delle scienze e della storia non iscompagnò quello delle lingue e sentì molto avanti nello idioma di Omero e in quello di Orazio e conobbe il francese, lo spagnuolo e il tedesco. Spesso esilarava l’animo suo con amene letture, ma il dolce non era mai disgiunto dall’utile, imperocché preferisse agli spasimi ed ai deliri de’ romanzieri ed alle ciance canore de’ verseggiatori la narrazione d’un viaggio, la narrazione de’ costumi di un popolo, la biografia di un eroe o d’un grande nelle scienze, o nelle lettere, o nelle arti belle.
Un animo temprato al vero, al buono e al bello ed ispirato alla severa scuola della storia, d’ogni alta cosa
insegnatrice altrui, non può esser sordo all’amor di patria, essendo questo una prerogativa de’ cuori grandi e generosi. Ed il barone Trabonella lo sentì e prepotentemente. Nei rivolgimenti, di cui è parola, e’ s’intese coi liberali del tempo e fu parte di quelle associazioni politiche, che tenevano desto lo spirito della libertà ed acceso il sacro fuoco della rivoluzione.

Quando ai giorni di febbrile entusiasmo tenner dietro giorni tristissimi, che la tirannide borbonica seppe creare mercé le immani stragi della nobile città di Messina, il barone di Trabonella, capitano della quinta compagnia del primo battaglione della Guardia nazionale di Caltanissetta, liberale per convinzione e non di opportunità o da caffè, non badando alla sua cagionevole salute, messosi alla testa di un pugno di generosi da lui istrutti nella milizia, era pronto a volare sul campo di Adernò, che gli era stato destinato
da’ superiori; ma gli eventi, precipitandosi da un momento all’altro, consigliarono il governo rivoluzionario ad accettare l’armistizio imposto al tiranno delle due Sicilie dalle potenze francese ed inglese ed il barone Morillo si ebbe l’ordine di non partire.
Consumato il sacrifizio di Sicilia e successo il governo del terrorismo, il barone di Trabonella non venne
meno a se stesso e vagheggiò tempi migliori per la redenzione politica del popolo italiano. Alla barba della polizia borbonica, che vantava cento occhi come Argo, mantenne corrispondenza continua coi patriotti di Sicilia e del continente, concorse a tener sempre vivo lo spirito rivoluzionario in questo centro dell’isola e conosceva per filo e per segno i lavori, che si compivano a fine di riunire in un sol corpo le sparse membra del bel paese d’Italia.
Era un lavoro alla chetichella: ce n’era da far salire la scala del patibolo.
Il barone di Trabonella non era pago di seguire coi voti e di promuovere con la parola il segreto lavorio del rivolgimento italiano, ma lo confortava col suo obolo in relazione alla sua opulenza ed alla liberalità del suo benfatto cuore. Gli esuli si ebbero soccorso e la stampa liberale e indipendente fu con generosità sussidiata. Poerio, Cavour, Lafarina, Cordova, Raeli ed altri dell’illustre falange dei patriotti d’Italia, che son divenuti patrimonio prezioso della storia del risorgimento, onorarono di loro amicizia il Morillo, di cui conoscevano aspirazioni ed ideali. Spuntò l’alba del 1860 e, liberata Caltanissetta dalla presenza delle regie truppe, il voto unanime del popolo lo chiamò alla presidenza del Comitato provinciale, nel quale ufficio e’ seppe meritar bene della patria e della causa italiana, perché rappresentò l’ordine, la bontà e la
giustizia.
La sua condotta saggia e nobile meritò l’approvazione e gli encomi del dittatore Giuseppe Garibaldi, che
con decreto del 31 maggio del testé accennato anno lo nominava Governatore del distretto di Caltanissetta.
Il governo del Morillo fu giudicato provvido e fecondo di salutari risultati, sicché, quando fu adottata dal
Ministero italiano la norma di piazzare i prefetti nelle provincie, a cui essi non si appartenevano, il clero e la cittadinanza con separati indirizzi patriotticamente scritti fecero voti che si facesse eccezione per quella di Caltanissetta.
Ma il governo non poteva ammettere l’eccezione e dovette mal volentieri accettare le dimissioni del
barone di Trabonella. Con decreto del 10 luglio 1861 veniva nominato ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e con decreti del 26 novembre commendatore del medesimo Ordine e senatore del regno.
Fu membro ordinario della Società di acclimazione e di agricoltura in Sicilia e Presidente onorario dell’Istituto di Africa fondato per l’abolizione della tratta e della schiavitù de’ popoli africani.
La sua vita non ci ricorda il patrizio, che cumula il tesoro ne’ forzieri per farsene un idolo o farlo tener dietro agli sfoggi e alle futilità, che riempiono gli animi vani e degni di compassione.
Il suo scrigno fu sempre mai aperto a quanti fra le strette della miseria si facessero a bussare alla sua porta.
Avrei molte prove da mettere in rassegna, ma me ne astengo, memore del precetto evangelico che, cioè, la destra deve ignorare ciò che fa la sinistra, precetto ch’era norma del Morillo nelle sue benefiche azioni. Ov’erano squallidi volti e’ sparse con l’industria l’opulenza, con la prosperità accrebbe le braccia e la vita e giudicò giorno perduto un giorno senza benefizi.
L’anno 1876 la fortuna del barone di Trabonella per motivi, di cui non tocca a me alzare il velo, die’ di tracollo ed egli ne rimase così profondamente afflitto che il 30 giugno 1877 nell’età di anni 61 scese nel silenzio della tomba.
Fu modello ai patrizi e rimprovero insieme, poiché seppe e mostrò come alle lor mani abbia Iddio affidate le dovizie e la forza per correggere le ingiurie di fortuna e fe’ chiaro che in questa vita di esilio dalla pace delle mura domestiche è pure una missione pe’ buoni.
Divulgatasi in un batter d’occhio l’infausta notizia della morte del barone Morillo, l’intiera cittadinanza ne fu preoccupata, ne fu profondamente commossa. Sembrava che la sventura colpito avesse ciascuna classe di persone, ciascun individuo.
E questo è il migliore, il più eloquente elogio che possa farsi di chi non turbato l’animo da un solo rimorso si parte da questa vita tessuta d’intrighi, di malizie, d’immoralità, di scandali e d’insinuazioni malvagie e delittuose.

Fonte: Liber liber

Aiutaci a crescere: condividi!