Gaetano Costa – Magistrato

Gaetano Costa nacque a Caltanissetta, dove studiò fino al conseguimento della licenza liceale, laureandosi, poi, nella Facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Sin da ragazzo aderì al Partito Comunista allora clandestino. Dopo aver vinto il concorso in Magistratura fu arruolato come Ufficiale nell’aviazione ottenendo due croci di guerra. L’8 settembre raggiunse la Val di Susa unendosi ai partigiani che ivi operavano. All’inizio degli anni quaranta fu immesso in servizio in Magistratura, prima presso il Tribunale di Roma; successivamente, su sua richiesta, fu trasferito alla Procura della Repubblica di Caltanissetta dove restò dal 1944 al 1965.
In quella Procura espletò la maggior parte della Sua attività di magistrato, da sostituto procuratore prima e da Procuratore Capo poi, dando sempre chiare manifestazioni di alta preparazione professionale, indipendenza, ed equilibrio. Nonostante il carattere apparentemente freddo e distaccato e la poca inclinazione ai rapporti sociali, gli fu sempre unanimemente riconosciuta una grande umanità ed attenzione soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli. Sin dagli anni sessanta, come risulta dalla sua deposizione alla prima Commissione Antimafia, intuì che la mafia aveva subito una radicale mutazione e che si era annidata nei gangli vitali della pubblica amministrazione controllandone gli appalti, le assunzioni e la gestione in genere.
Inutilmente, all’epoca, richiamò l’attenzione delle massime autorità sul fatto che un’efficace lotta alla mafia imponeva la predisposizione di strumenti legislativi che consentissero di indagare sui patrimoni dei presunti mafiosi e di colpirli. Nel gennaio del 1978 fu nominato Procuratore capo di Palermo ma la reazione del “Palazzo” fu, in larga misura, negativa, tanto da far sì che si ritardasse la sua immissione in possesso sino al luglio di quell’anno. Insediandosi, consapevole delle resistenze che avrebbe dovuto affrontare, fece la seguente dichiarazione:
“Vengo, disse in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”. Nel breve periodo di sua gestione della Procura di Palermo avviò una serie di delicatissime indagini nell’ambito delle quali, sia pure con i limitati mezzi all’epoca a sua disposizione, tentò di penetrare i santuari patrimoniali della mafia.
Di lui scrisse un suo sostituto che era un uomo “di cui si poteva comperare solo la morte”. Alle 19.30 del 6 agosto 1980, mentre passeggiava da solo ed a piedi, morì dissanguato sul marciapiede di via Cavour a Palermo. Al funerale parteciparono poche persone soprattutto pochi magistrati. Non va dimenticato che, pur essendo l’unico magistrato a Palermo al quale, in quel momento, erano state assegnate un’auto blindata ed una scorta, non ne usufruiva ritenendo che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che lui era uno di quelli che “aveva il dovere di avere coraggio”.
Nessuno è stato condannato per la sua morte ancorché la Corte di assise di Catania ne abbia accertato il contesto individuandolo nella zona grigia tra affari, politica e crimine organizzato. Da molti settori, compresa la Magistratura, si è cercato di farlo dimenticare anche, forse, per nascondere le colpe di coloro che lo lasciarono solo e, come disse Sciascia, lo additarono alla vendetta mafiosa. Il suo impegno fu continuato da Rocco Chinnici, allora tra i pochi che lo capirono e ne condivisero gli intenti e l’azione. E a cui, per questo, toccò la stessa sorte.

Fonte: Pagina Facebook

 

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